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PHI YAAN-ZEK WITH MARCO MINNEMAN Dance with the anima Age of Wonder/Geomagnetic Records 2010 UK

Se c’è uno strumento che a mio parere non ha nulla da dividere con il progressive, questa è l’armonica a bocca. Sono da sempre convinto che un qualsiasi brano di buona potenzialità sarebbe irrimediabilmente affossato e aprioristicamente destinato al cestino dei rifiuti, tanta è la mia ripugnanza fisica a quel suono.
Non che in questo disco ce ne sia a sufficienza da doverlo cassare tout-court, ma quando esce fuori è una vera sofferenza. Tralasciando questo mesto particolare, parliamo un attimo di questo autore della zona londinese, che non conoscevo affatto. Phi Yaan-Zek, pur naturalizzato inglese, ha, ovviamente, origini esotiche. Il suo stile chitarristico è una mescolanza delle molte influenze avute durante la sua crescita artistica, che lo ha portato, con questo, al quarto album solista. Nel suo preciso diteggiare possiamo sentire echi soprattutto di Zappa e di McLaughlin quando la musica è prevalentemente fusion e jazz, mentre quando si incattivisce e assume forme più metal oriented salta fuori un po’ di Steve Vai e – qui e là – un tocco di Satriani.
Oltre alla chitarra, il padrone di casa suona il basso, alcune tastiere, percussioni e si dedica ai pochi vocalizzi presenti. Sicuramente da citare prima delle altre, la collaborazione del batterista Marco Minneman. Questo straordinario drummer è al momento tra i più quotati professionisti al mondo, tanto che le sue qualità sono arrivate “persino” a candidarlo quale sostituto di Portnoy dei Dream Theater. Al di là delle battute, la sua tecnica e la sua forza innovativa nello strumento sono già abbastanza palesi, ascoltandolo. La sua collaborazione al lavoro di Yaan-Zek è piuttosto particolare, in quanto il lavoro di incisione si è svolto in un’unica sessione ininterrotta, che ha generato una sorta di drum solo di 51 minuti, cioè la durata del disco stesso. Altra collaborazione fondamentale del disco è stata quella del tastierista dei Karmakanic Lalle Larsson, che ha legato il suo nome, oltre ai vari momenti virtuosistici, anche ad alcuni arrangiamenti. Completano la band la citata armonica di Gary Compton, figura dominante del secondo brano “Midnight Tryst”, Ola Olsson alla tromba e al filicorno, ottimo nello spazio a lui dedicato nella pur breve “Signpost”. Poi troviamo ancora una manciata di vocalist, tra i quali la brava Amandine Ferrari, il cui intervento però è molto limitato.
Il disco, sulla carta, sarebbe diviso in 22 brevissimi titoli, ma in realtà non c’è nessuna interruzione e tutto scorre come fosse un unico brano, ben concatenato e dalle evoluzioni continue e in rapidissima successione. Tra i frammenti migliori lo scorcio zappiano di “Melodies of Me”, lo spettacolare assolo di piano elettrico che Larson infila in “Precipices”, lo spazio etereo di “Flirting With Intensity”, ricco di sincopi, esplosioni e momenti che rimandano a Pat Metheny e un furioso solo di synth in chiusura, la sincopata e poliritmica “Twisted to the 7th Degree Off Starboard“, forse il brano migliore del disco.
Quindi tra momenti tipicamente jazzy, un bel po’ di fusion rockeggiante, qualche momento più metal acido e alcuni di tendenza bluesy, come la lenta e zappiana “Dirt Under the Fingernails”, dove però torna alla carica l’armonica di Compton, arriviamo rotolando alla fine, larga e pacifica del disco, che tutto sommato porta a casa una sufficienza ben abbondante.



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Roberto Vanali

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