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ZENIT The Chandrasekhar limit Galileo Records / Gonzo Multimedia 2013 SVI

Dove sono diretti gli Zenit? Al quindicesimo anno di attività del gruppo svizzero, sembra questo l’interrogativo che nasce dal nuovo disco, che presenta un titolo particolare. Grazie al limite di Chandrasekhar, individuato da un fisco indiano nel secolo scorso, è possibile capire se una stella nana bianca rimarrà una stella oppure si tramuterà in buco nero. Il bassista Andy Thommen indica così un parallelo tra questo spunto matematico e la carriera del suo gruppo, che, dopo essere arrivato a un crocevia senza capire bene che strada intraprendere, con questo lavoro cerca di comprendere se il loro personale limite di Chandrasekhar è stato superato o meno. Il disco mostra una band capace di guardare al passato e, al contempo, di indirizzare certi insegnamenti e certe esperienze verso il futuro. Si parte subito nel migliore dei modi con gli impasti di “Awaken”, che avanza tra arpeggi acustici genesisiani e incroci di chitarra elettrica e tastiere nella più classica tradizione del rock sinfonico. E nei dodici minuti di questa composizione, inevitabilmente, si prosegue tra cambi di atmosfera e di tempo (il basso è spesso in bella evidenza e in coppia con la batteria forma una sezione ritmica grintosa al punto giusto e pienamente affidabile), passaggi ipnotici e facendo attenzione anche alle melodie vocali. Per merito di parti strumentali ben costruite e dal fascino senza tempo il gruppo si mostra decisamente ispirato, pur non inventando niente di nuovo e pescando a piene mani nel rock sinfonico degli anni ’70 e nel new-prog del decennio successivo, tra Genesis, Yes, Camel, Pink Floyd, Marillion, IQ e Pendragon. Non tutto l’album, tuttavia, mantiene standard qualitativi così elevati; fortunatamente, se in alcuni momenti si avverte un po’ di stanchezza, possiamo comunque affermare che la maggior parte dei sessantanove minuti del cd riesce a catturare l’attenzione e a mostrare musicisti in forma che sanno anche deliziare con il loro sound. A volte si va un po’ lontano dal seminato, come è evidente nella breve ballad acustica “Cub lady” e nei diciassette minuti di “Matrimandir”, con i suoi rimandi all’oriente, una parte del testo in sanscrito (il resto, come anche negli altri brani, è in inglese) e passaggi strumentali che sconfinano verso la fusion. Qualche digressione in questa composizione risulta anche piacevole, ma alla fine, il meglio di sé gli Zenit lo danno quando puntano sul rock sinfonico più “puro”, così, per trovare un altro pezzo davvero da novanta, bisogna giungere alla conclusiva e chilometrica “The daydream suite”: introduzione pianistica, poi un susseguirsi di melodie ariose, voli floydiani, solos infuocati, spunti classicheggianti, soavi backing vocals femminili, con la sezione ritmica pronta ad andare ovunque. Qualcuno, inevitabilmente, obietterà che ventiquattro minuti e mezzo sono troppi, ma l’impressione è che non sia stato sprecato nemmeno un secondo. Terzo album in quindici anni di carriera… Non si può certo dire che gli Zenit siano prolifici, ma i sette anni trascorsi dal precedente “Surrender” sembrano aver fatto davvero bene alla band elvetica.


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Peppe Di Spirito

Collegamenti ad altre recensioni

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