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ZAAL Homo habilis Lizard Records 2020 ITA

Terzo capitolo per la saga Zaal, progetto con cui il tastierista Agostino Macor (Finisterre, Maschera di Cera, LaZona, Rohmer, L’Ombra della Sera) porta avanti a suo modo un’idea di jazz-rock progressivo. La raffinatezza che caratterizzava i primi due lavori è in questa occasione affiancata da una visceralità fortissima, derivante da un processo di contaminazione particolare che porta ancora più in avanti la personalità musicale di Macor. Il lento incedere iniziale di violino e tastiere che introduce l’opener “Meccanica naturale” deflagra dopo un paio di minuti in un jazz-rock vivace e colorato dei variegati timbri di piano elettrico, percussioni assortite, fiati e sitar. È solo l’inizio di un viaggio sonoro incredibilmente affascinante, che prosegue con le note classicheggianti del piano che apre “Revéil (post big bang)”, brano che prosegue in totale libertà, dai suoni liquidi, ondeggianti e suggestivi e che fa intravedere un primo approccio a certi schemi del Miles Davis elettrico, pronti a fondersi con la world music. Ed è con “Presences” che l’influenza davisiana tocca il culmine, con sette minuti ossessivi eredi dell’esperienza di “Bitches brew”. Per l’occasione il batterista Federico Branca Bonelli sfoggia alla base un drumming metronomico e memore di quanto fatto da Jack DeJohnette sul capolavoro succitato, mentre tromba, Fender Rhodes e basso dialogano facendoci fare un meraviglioso tuffo indietro di cinquant’anni. Davvero difficile ricordare qualcuno così capace di immergersi in questo sound con la convinzione, la capacità e i buoni risultati mostrati dagli Zaal. È chiaramente una di quelle occasioni in cui si va avanti rischiando di fare una pessima figura, ma Macor e compagni vincono la sfida a mani basse. A questo punto ci sta tutto un breve intermezzo di mezzo minuto di pianoforte che ci fa rifiatare un attimo. La title-track, poi, ci riporta pian piano verso quei sentieri cui ci stavamo abituando: il sitar ci dà sapori d’Oriente e di psichedelia, il violino amplifica le sensazioni esotiche, la batteria torna a dettare ritmi ostinati, viene trovato un tema reiterato in maniera maniacale, mentre tastiere, sax, tromba e percussioni si uniscono alle danze, intrecciandosi e alternandosi in un jazz-rock dalla mille sfaccettature. Altro breve intermezzo, stavolta al piano elettrico (che riprende l’inizio di “Reveil”) e si passa a "Instruments”, un brano in cui la contaminazione tra generi diventa totale, permettendo alla world music di unirsi alla musica da camera, facendo avvicinare la PFM di “Jet lag” a Zappa e ai Soft Machine, tessendo ancora una volta trame personali. Ci si avvicina al finale e troviamo “Revéil (together project)”, che spinge nuovamente verso echi cari al Miles Davis degli anni ’70 con un ensemble di ben dieci elementi (segnaliamo, tra gli altri, Mau Di Tollo alla batteria). Non è finita, perché c’è una “quasi ghost track”, “Androids void”, che vede protagonista il solo Macor, con piano e una Cassini Arp Machine. Questo finale spinge verso sonorità elettroniche ed ambient, apparentemente in contrasto con quanto ascoltato finora, eppure lascia trapelare in qualche modo che la mente è sempre la stessa, lasciando la sensazione di essere conclusione perfetta dell’album. Che dire di più? Non è facile imbattersi oggigiorno in dischi di questo tipo, in cui le influenze si sentono, ma vengono portate verso qualcosa di diverso, verso una musica che ha vita propria, pur essendo legata a maestri del passato. Macor con gli Zaal aveva già sfornato due dischi bellissimi, ma con “Homo habilis” è riuscito a superarsi, realizzando un gioiello che speriamo non rimanga tale solo per pochi aperti ad un progressive pieno delle contaminazioni descritte.



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Peppe Di Spirito

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