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ARCANSIEL Marco Galletti
 

Four Daisies (1988):

INTRODUZIONE

Quando Marco Del Corno mi ha proposto di scrivere questi cosiddetti ‘1vs1’ ho accettato con entusiasmo.
Sicuramente è un po’ curioso farlo con riferimento a brani composti 15-20 anni fa, chissà se qualcuno se li ricorda o li ascolta ancora…
Per me è stata un’esperienza bella e malinconica ad un tempo, ho provato una sensazione simile a quella che ciascuno di noi prova guardando delle vecchie foto, della propria infanzia o della propria gioventù.
Ecco, se fate un’ attimo mente locale e cercate di rivivere, dentro di voi, questo tipo di sensazione avete colto il ‘feeling’ che sta alla base del primo album degli Arcansiel, che nel Marzo del 1988 uscì con il titolo di ‘Four Daisies’.
Perché questo titolo ? Cosa sono queste ‘quattro margherite’ ?
Tutto deriva proprio da una vecchia foto di una gita scolastica, che mia cugina teneva sulla scrivania della propria stanza.
Ricordo che rappresentava 4 ragazzine sedute in un prato di margherite, piene di quell’allegria ‘di facciata’ che tutti noi, nella nostra adolescenza, abbiamo provato.
Un’allegria che spesso nasconde ben altri sentimenti, a volte una vera e propria angoscia esistenziale (tema che è stato, poi, sviluppato nel brano che da’ il titolo all’album…).
Le atmosfere di questo disco sono, quindi, spesso caratterizzare da una sensazione di dolcezza malinconica, di ricordo del passato, di nostalgia, ecc…un tono un po’ ‘crepuscolare’, per intenderci.
Forse è proprio questa ispirazione che, a mio personale giudizio, lo avvicina a certi lavori dei primi Genesis (Trespass, Nursery Crime, ecc…) che io ho amato molto.
Non voglio fare paragoni ‘sacrileghi’, parlo solo di una comunanza di ispirazione. È chiaro che il loro risultato artistico fu ben diverso….
Va poi detto che l’album originale, autoprodotto e stampato in poche centinaia di copie, uscito solo su vinile nel 1988, conteneva proprio 4 brani, il che faceva il paio con il titolo.
Il quinto brano (Stories of the lake) fu aggiunto come ‘bonus track’ due anni dopo, all’atto della stampa su CD.
La registrazione, come tutte quelle dell’album eccezion fatta per Stories of the lake (che fu registrato in un piccolo studio), fu eseguita con mezzi a dir poco ‘di fortuna’.
In effetti l’idea iniziale era quella di registrare una ‘demo’ per promuovere la nostra musica. Ci convincemmo poi, dopo non poche discussioni, ad autoprodurci il disco in vinile.
Utilizzammo, quindi, un 4 tracce a cassette e registrammo quasi tutto in diretta, nella nostra sala prove di allora (una stanza sopra ad un oratorio, disabitata da tempo e frequentata esclusivamente da noi, da qualche amico che veniva ad ascoltarci alle prove e da qualche topo…).
Completammo poi la base stereo registrata in diretta, sovraincidendo una terza traccia di tastiere (e/o chitarra, e/o fiati) ed una quarta di voce.
Tanto per dare un’idea del tipo di attrezzatura a nostra disposizione vi dirò che il mixer era un glorioso 6 canali Binson del 1962, monofonico e completamente valvolare, con tanto di ‘camera eco’ a disco magnetico ed attacchi microfonici di tipo ‘Geloso’.
Il mixaggio fu completamente ‘manuale’, lavoravamo in 4 sui cursori.
Come potrete intuire il disco NON fu masterizzato a Los Angeles.

UN ARC DANS LE CIEL
Oggi come allora io sono solito comporre musica partendo da ‘appunti’ registrati su nastro.
Questo brano è stato creato costruendo un ‘collage’ di appunti che avevano tutti un comune denominatore: trasmettevano, a mio giudizio, una sensazione di ‘ritorno al sereno’.
Quella sensazione ben precisa che si ha sorridendo dopo aver pianto, affrontando una discesa dopo una salita, godendosi, dopo l’inverno, i profumi della primavera o… soffermandosi ad osservare un arcobaleno dopo un violento temporale.
Volevo esprimere ciò utilizzando solo la musica, che spesso è molto più eloquente di mille parole.
L’ho fatto utilizzando una soluzione armonico/melodica di cui, all’epoca, ero letteralmente innamorato e che utilizzai anche in altri brani (non pubblicati).
Riepilogo brevemente la ‘ricetta’ (breve inciso dedicato a chi di voi conosce un po’ di musica).
1. Iniziare con una melodia in tono minore (es. LAm).
2. Modulare la medesima melodia sulla terza minore (es. Dom, una cosa che sentivo fare spesso da un certo Fabrizio De Andre’, che io, al contrario dell’opinione comune, ho sempre considerato ancora piu’ bravo come musicista che come paroliere…) contrappuntandola con una seconda melodia in sovrapposizione.
3. Passare dal tono minore al tono maggiore (es. dal Dom al Do) sviluppando di conseguenza le due melodie di cui sopra. Questa apertura ha l’effetto di un raggio di sole fra le nuvole ed è qualcosa di estremamente naturale perché ha una dominante (es. Sol) che porta in modo fluido e tranquillo al punto di partenza (es. Lam).
A parte la precarietà evidente dei suoni (frutto dei limitatissimi mezzi di cui ho prima parlato) personalmente ho sempre ritenuto il risultato finale abbastanza interessante.
L’idea di contrappuntare le due melodie dapprima con synt/clarinetto e poi con fender/sax ha avuto, alla fine, una resa ‘decorosa’.
Devo, poi, ringraziare l’allora chitarrista degli Arcansiel (Claudio Baretta) che ci ha messo molto del suo utilizzando una sonorità ‘morriconiana’ che mi ha sorpreso e che ha donato al brano una veste inconsueta.

FOUR DAISIES
Come già accennato l’idea di questo brano deriva dalla foto della gita scolastica di cui ho prima parlato.
Ho immaginato una storia molto ‘adolescenziale’, fatta di un amore romantico, inconfessato ed inconfessabile fra due delle protagoniste.
Lo si sarebbe dovuto intuire leggendo le due pagine del libro aperto nel retro-copertina (chissa’ se qualcuno lo ha mai fatto…).
Si tratta di un finto estratto da un romanzo inesistente che serve unicamente per inserire, nel mezzo della narrazione, il testo di due brani dell’album (appunto Four daisies e la successiva Evelyn), un modo un po’ diverso per scrivere in nota i testi delle canzoni.
Musicalmente penso che la trovata più importante sia l’inserimento del cantato.
Nel disco viene dopo uno strumentale ed è, esso stesso, un ‘falso strumentale’, come qualche recensore all’epoca lo definì.
In pratica, dopo quasi dieci minuti di disco puramente ‘suonati’, l’uscita di un inciso cantato, preparato da un contesto sonoro molto ‘liquido’ e ‘glide’ (eh sì, confesso che i Pink Floyd mi sono sempre piaciuti molto…) avrebbe dovuto sorprendere, spero piacevolmente, l’ascoltatore.
Ricordo la registrazione ‘in diretta’ della base ritmica come una specie di incubo.
La ripetemmo almeno una ventina di volte, una volta Nico sbagliava il basso, l’altra volta Gianni accelerava il finale, l’altra volta era il mio turno a steccare un accordo, ecc…
Quella ‘buona’ (o almeno ‘decente’) fu proprio l’ultima, erano le due di notte ed il prete, disperato, stacco’ il contatore della luce una frazione di secondo dopo che concludemmo la registrazione.
Era questo, forse, il brano con maggiore impatto ‘live’ del nostro repertorio, l’abbiamo suonato spessissimo ma sempre, credo, molto volentieri.

EVELYN
Ho sempre considerato questo brano come la ‘naturale prosecuzione’ di Four Daisies. Come se fossero due parti di una stessa suite.
Il tema è quello del ‘flash-back’, il ricordo di un immagine lontana, sbiadita ma sempre viva non tanto per la precisione con cui viene ricordata quanto per le emozioni, ancora ‘vive’, che suscita.
Ho immaginato i sentimenti di una delle due protagoniste della storia di ‘Four daisies’ vissuti moltissimi anni dopo, soffermandosi di fronte alla solita fotografia, ormai ingiallita dal tempo.
Risentito a distanza di anni mi pare che la cosa più interessante possa essere l’articolazione armonica della parte cantata, un po’ folkeggiante ma con qualche dissonanza ‘strategica’ inserita qua e là.
L’esplosione strumentale era di grande effetto ‘live’ ma, tutto sommato, forse un po’ ‘naif’.
Con l’inserimento nel gruppo di Gianni Opezzo alla chitarra (primavera 1989) il brano, però, migliorò sensibilmente, acquisendo ancora più dinamica, soprattutto nei ‘pieni’.
Mi ricorderò sempre l’esecuzione di Evelyn nell’ultimo concerto degli Arcansiel, durante un raduno prog nell’estate del 1990. Fu una cosa davvero ‘magica’ e fu giusto terminare in bellezza.
In termini di sonorità direi che è l’unico brano dell’album in cui sono riuscito ad utilizzare in modo un po’ convincente quelle terribili tastiere FM che, nella musica degli anni ’80, sembravano imprescindibili.
In realtà ho sempre prediletto il suono analogico e pastoso del ‘Juno 106’, salvo che in questo brano dove le sonorità basse sono, appunto, tutte FM.

WHEN YOU’RE RIGHT
Secondo me questa ‘mini suite’ è stata a suo tempo un po’ sottovalutata.
Era un brano abbastanza impegnativo da suonare, con un’introduzione caratterizzata da una ritmica un po’ ‘balzana’, piena di accenti spostati e di tempi dispari.
Sicuramente è la registrazione che, alla fine, è venuta meglio, forse l’unica dell’album in cui si può cogliere in modo abbastanza pulito ogni sfumatura della batteria di Gianni Lavagno.
Questa volta non c’è, nel testo, un tema crepuscolare o, in qualche modo, romantico.
È semplicemente costituito da una serie di considerazioni dedicate a chi crede di essere sempre dalla parte della ragione.
Il brano, in realtà, sta tutto nella musica.
Non nascondo che le atmosfere orchestrali del secondo movimento evochino una malcelata nostalgia per le aperture di mellotron del prog-rock piu’ classico (ad un orecchio attento Watcher of the skies appare come riferimento preciso…).
Ad esso, però, fa seguito un terzo movimento dominato da un clarinetto (!?) filtrato nell’eco Binson spinto al massimo.
La ripresa ritmica del quarto movimento anticipa in modo netto certe atmosfere ‘incalzanti’ che saranno poi sviluppate più tardi nella suite I’m still searching che vedo un po’ come un’esecuzione più competa e compiuta di idee embrionali già presenti in questo brano.

STORIES OF THE LAKE
Come già accennato nell’introduzione questo brano non c’entra nulla con il ‘concept’ primigenio di Four daisies.
Intanto è stato registrato molto più tardi (estate 1989) e la formazione era già quella di Stillsearching, con Gianni Opezzo alla chitarra al posto di Claudio Baretta e Sandro Marinoni al sax al posto di Piero Zancanaro.
Fu inserito come ‘bonus track’ nella versione CD dell’album che usci nel 1990, quando firmammo il contratto con Contempo Records.
Personalmente non ero molto d’accordo, proprio perché mi sembrava alterasse l’armonia complessiva dei 4 brani originali, ma non ci diedero molta possibilità di scelta.
Anzi, sbagliarono pure a scrivere il titolo che diventò ‘Stories of a lake’.
Fu, praticamente, la nostra prima avventura in studio, o almeno in un locale che assomigliava più o meno lontanamente ad uno studio.
Registrammo, infatti, da un amico di Gianni che aveva attrezzato una stanza con, se ben ricordo, un 8 tracce ed un mixer semiprofessionale. Questo tale si chiamava… Paolo Baltaro (corsi e ricorsi storici…).

Quando lo composi ero davvero entusiasta del brano.
Era ispirato da un fatto di cronaca nera che aveva coinvolto due amanti ed era accaduto nelle vicinanze del luogo, nei pressi di un lago, in cui avevo trascorso molte estati della mia infanzia, in quanto ci abitavano i miei nonni.
Questa storia a tinte fosche si accompagnava ad una melodia un po’ ‘Marillion’ fino al contrappunto di fiati che avevo concepito come un omaggio ad un misconosciuto ma bellissimo brano di Richard Wright (Pink Floyd, Summer ’68 da Atom heart mother).
Ebbene, il risultato finale, secondo me, fu una ‘frittata’.
Dovemmo finire tutto in un pomeriggio e non ebbi modo meditare e rimeditare sui suoni e sugli arrangiamenti.
La controstrofa è di un vuoto pauroso e i fiati hanno ben poco del suono ricco che avevo in mente.
Ancora oggi faccio fatica ad ascoltare questa versione, preferisco ascoltarne un’altra che rimase sul 4 tracce e non fu mai pubblicata.
Forse un giorno o l’altro varrà la pena di riprenderlo in mano e rifarlo del tutto.

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