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ARPIA Antonio Piacentini
 

Gli Arpia sono uno dei gruppi “storici” del panorama underground romano.
Nati oltre venti anni fa, la loro proposta ha sempre riscosso molta curiosità, sia dagli amanti delle sonorità progressive, sia dagli amanti di altri generi. La loro musica è sempre stata contraddistinta da una certa originalità, che li ha fatti diventare un piccolo fenomeno di culto almeno nella capitale.
Dopo 14 anni dal loro primo cd, tornano sulle scene con l’interessantissimo "Terramare" che, anche per i testi molto ricercati e comunque “diversi” dallo standard normale, risulta essere uno dei lavori più carini usciti nel 2006.
Tramite le sue considerazioni, Leonardo Bonetti,leader del gruppo, ci fa entrare nell’universo Arpia.



Come nascono gli Arpia?

Gli Arpia sono nati nel 1984 in occasione di un concerto di carnevale. Un bel modo per cominciare. “Mettere la maschera” è stato il segno di inizio ed ha coinciso con un concerto in cui suonavamo esclusivamente brani metal: vorrà dire qualcosa, forse. Da quel momento abbiamo iniziato un lavoro lunghissimo, basato innanzitutto sul confronto delle idee: due mesi di discussioni serrate su ciò che volevamo fare. L’ossessione che stava alla base del nostro progetto si è però materializzata da subito, prendendo corpo in testi di matrice filosofica ed esistenzialista che in seguito abbiamo tentato di far reagire – quasi chimicamente – con la musica. Il risultato di questo lavoro è stato “de lusioni”, primo demo che risale ormai a una ventina di anni fa.

Ci parlate del vostro nuovo lavoro? Come lo giudicate?

Credo che il nostro giudizio su “Terramare” sia cambiato dopo un mese e mezzo dall’uscita. Non ci aspettavamo una reazione così positiva e stiamo ancora prendendo coscienza di tutta una serie di aspetti del disco che ci erano totalmente sfuggiti. Innanzi tutto la evidente varietà di ispirazione e composizione che emerge ad un ascolto attento. La musica che facciamo ci sembra sempre un frutto spontaneo e indolore perché abbiamo superato e dimenticato il travaglio (peraltro molto lungo e penosissimo) della ideazione e realizzazione. Dall’esterno, invece, tutta la complessità arriva diretta e lascia, probabilmente, segni diversi a seconda della sensibilità e della storia individuali. A noi il disco sembrava molto omogeneo, mentre mi è sembrato di cogliere da più parti accenni ad una ecletticità di fondo.

14 anni sono tantissimi, cosa è successo in questo periodo agli Arpia?

Tutto, quindi non molto. Abbiamo messo in gioco quello che avevamo fatto fino a Liberazione e ci siamo aperti a collaborazioni esterne, intraprendendo un percorso molto stimolante con musicisti provenienti da aree diverse come Tonino De Sisinno e Paola Feraiorni. Abbiamo composto e suonato come mai prima di allora, soprattutto nel periodo tra il 1999 e il 2002. In realtà Terramare affonda le radici in una fase precedente, con brani a volte composti addirittura dieci anni fa, ma poi rivisitati e trasformati nell’ultimo periodo prima della registrazione.

Quanto è importante la dimensione live per un gruppo come il vostro e quanto è difficile trovare date e organizzare serate dal vivo?

Organizzare concerti è difficile per un gruppo come il nostro. Eppure forse è proprio quella la dimensione in cui ci esprimiamo al meglio. Stiamo preparando proprio in queste settimane uno spettacolo che avrà un’impostazione fortemente teatrale e che vedrà l’intervento di parti recitate in un flusso di continuità con la musica.

Che ne pensate delle cover band che praticamente nelle grandi città hanno serate e locali fissi con affluenze di un certo rilievo? Tolgono spazio a chi fa musica “originale” o comunque si riesce a convivere?

Tutto il male possibile. Intendiamoci, non sto qui a giudicare nessuno. Sono disincantato e non me la prendo più di tanto. Dico però quello che penso.
C’è sicuramente un aspetto importante nel suonare musica di altri. D’altronde tutti iniziano in quel modo e questo tipo di esercizi musicali non sono per nulla passivamente mimetici. Anzi. Possono essere un momento fortemente creativo.
Ma il fenomeno delle cover band o dei tributi è un’altra cosa. Rappresenta la pratica sistematica di distruzione del patrimonio musicale di una comunità. Probabilmente è ciò che dobbiamo pagare alla postmodernità per non soccombere. Abbiamo fatto già i conti con questo problema, tanto che posso anticiparvi che abbiamo pronto molto materiale abbastanza sorprendente che parte proprio dall’esigenza di confrontarsi con l’utilizzo di codici e di linguaggi musicali spersonalizzanti, basati su stereotipi da riutilizzare come materiali “nuovi” di composizione. In realtà abbiamo già fatto un disco di sole “cover”, probabilmente il nostro prossimo lavoro. Il fatto è che saranno cover di canzoni mai scritte, un tributo a un gruppo che non è mai esistito.
Con i gruppi che fanno cover ci è sicuramente capitato di suonare anche se non ricordo le circostanze precise. Non ce l’ho con loro. Sono le vittime del degrado culturale a cui siamo giunti.
In tutto questo, però, colgo un aspetto fortemente positivo: la reazione - seppure sotterranea e a tratti clandestina - che si sta sviluppando con grande forza da parte di moltissimi gruppi che, in controtendenza, si impegnano in un difficile percorso di originalità.

In tutti questi anni avete mai pensato che si potesse vivere di sola musica qualche volta?

E’ stata una delle prime questioni che abbiamo affrontato quando è nato il gruppo. Abbiamo infatti assolutamente escluso qualsiasi possibilità di fare della musica un “lavoro”. In primo luogo perché, semplicemente, il contesto in cui operavamo non lo permetteva; inoltre perché siamo convinti che l’arte non può e non deve mai farsi e costituirsi come processo di alienazione. Nel momento stesso in cui intorno a te e alla tua musica ruota un’azienda con tutti i problemi ad essa connessi, il peso delle responsabilità verso le cose e le persone che dipendono da te comincia a farsi insopportabile. Le pressioni cominciano ad essere troppe e troppo forti. La tua creatività passa in secondo piano e l’autocensura inizia a operare senza rivelarsi apertamente. Conosciamo musicisti di professione che manifestano il loro amore per la musica odiandola.

Tanti tanti anni fa ho conosciuto gli Arpia tramite un demo che passavano in un programma radio prettamente metal. A distanza di tanti anni e vedendo che almeno in ambito locale le radio che trasmettono rock sono aumentate e hanno anche un certo riscontro dal punto di vista di ascolti,come va la promozione radiofonica di "Terramare"?
C’è, non c’è e soprattutto quanto è importante visto che molti gruppi almeno nella capitale sono diventati famosi tramite il passaggio in maniera frequente dei loro brani?


La programmazione radiofonica è sicuramente molto importante per farsi conoscere, ma la musica che facciamo non ci permette di accedere facilmente a questi canali. Qualcosa si è mosso attraverso Radio Rock a Roma, Radio RockFM a Milano, Radio Cantù dove dovremmo essere intervistati la prossima settimana, Radio Onde Furlane in cui siamo andati in onda martedì scorso. Inoltre ci sono le realtà emergenti delle radio sul web, come l’olandese Paperlate.nl su cui siamo stati trasmessi domenica 5 novembre e l’americana Prog Palace Radio su cui siamo presenti con un alto numero di richieste da qualche settimana.

Quali sono le vostre influenze?

Questa è una domanda alla quale non credo di saper rispondere in modo preciso. Posso solo dire quali sono stati i gruppi che abbiamo ascoltato durante il nostro periodo di formazione. Diciamo i Maiden dei primi due dischi, i Van Der Graaf Generator, i Pink Floyd di The Wall, i Genesis di Selling England by the Pound, i Black Sabbath di Vol. IV. Ma non so quanto possano essere indicativi nello sviluppo della nostra musica.

Tornando un attimo al mondo del rock progressivo, siete secondo me un gruppo di frontiera quanto vi sentite parte di questo movimento sempre che ve ne sentiate parte?

E’ vero, non siamo parte integrante del mondo prog, anche se in qualche modo siamo riconducibili ad esso. Diciamo che quando facciamo musica non stiamo lì a pensare se quello che suoniamo è abbastanza prog o abbastanza metal. Il percorso creativo è complesso e delicato e non può essere gestito troppo razionalmente, pena la sua stessa morte. Credo che l’originalità che ci viene riconosciuta un po’ da tutti coloro che ci hanno ascoltato con attenzione sia proprio il frutto di questo metodo compositivo, di questo approccio al di fuori dei generi. Ciò non toglie che i moduli in cui preferibilmente ci esprimiamo siano abbastanza omogenei proprio per il fatto che sono radicati dentro di noi sin dalla prima formazione musicale, garantendoci così una continuità nella varietà.

E parlando di gruppi prog (e non solo) quali sono i gruppi del passato che hanno meritato e quelli del presente che meriterebbero almeno un ascolto?

Sono naturalmente tantissimi e non credo di poterli citare tutti: diciamo i Van Der Graaf, i Pink Floyd, i Genesis tra i “vecchi”; i Radiohead, i Tool e i System tra i “nuovi”.
Per terminare voglio ringraziare te e tutta la redazione di Arlequins per la disponibilità e lo spazio che ci avete concesso. Un ringraziamento va anche a tutti coloro che, nonostante il lunghissimo silenzio, non si sono dimenticati di noi e hanno ripagato il nostro impegno con un entusiasmo che ci ha contagiato.

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