Home

 
ELLIOTT, KEN (SECOND HAND, SEVENTH WAVE) Luca Pacchiarini
 

Un viaggio nell’affascinante storia di Ken Elliott, membro di due band di culto del prog inglese:
I Second Hand, noti per aver pubblicato “Reality” e “Death May Be Your Santa Claus” (considerato il loro capolavoro), e i Seventh Wave, autori di “Things To Come” e “Psi-Fi”.
L’occasione della vita con Peter Gabriel, il tragico evento che determinò incidentalmente il sound di uno dei gruppi migliori dell’underground inglese, le amicizie con i gruppi del giro londinese tra gli anni Sessanta e Settanta, questo e molto altro…



Per favore, parlaci delle tue attività attuali…. Sei sempre coinvolto nel mondo della musica?

Sì, sono sempre coinvolto nel mondo musicale, anche se ovviamente faccio cose molto diverse da quelle che facevo negli anni 70: adesso sono attivo principalmente come sessionman. Non ho altre occupazioni. Negli ultimi anni ho lavorato con Chris Bemand dei 45dip, componendo per librerie musicali, ma facendo anche effetti sonori per animazioni, questo tipo di cose insomma (Qui Ken Elliott viene menzionato accanto a Brian Auger - NdA). Ho anche lavorato a un mio progetto musicale e sto pensando a come metterlo in pratica.
Nel 1999 mi sono trasferito a Galway, nell’Irlanda occidentale, e vi sono rimasto per 5 anni; lì ho suonato in gruppi di cover rock e musica folk irlandese, tornando a suonare dal vivo dopo anni. E’ stato un ottimo esercizio. Nello scorso ottobre mi sono trasferito da Londra in un posto chiamato March, vicino Cambridge, in modo da concentrarmi più sulla musica, senza tutte le distrazioni di una grande città.

Ho visitato il sito web dei Seventh Wave: nella sezione “Foto” c’è un documento della Polydor che ti riguarda. Alla voce “Persone che hanno avuto una grande influenza” troviamo nomi come Graham Bond, Bach, Steve Winwood, Shostakovitch e i Beatles. Cosa o chi influenzò la tua musica? Sei un autodidatta?

A proposito di influenze, da adolescente andai a vedere Graham Bond e fui impressionato dalla sua versione di “Wade In The Water”, e da come fondeva classica e Rhythm and Blues. McCoy Tyner (il pianista di John Coltrane) fu un’altra influenza, e pure Arthur Brown. Visitavo piccoli club underground a Londra, anche jazz clubs, per cui ricevetti molti stimoli diversi.
Pure Dave Brubeck, Brian Auger, Keith Emerson, Moody Blues e Mike Rutledge dei Soft Machine furono molto importanti. Quando diventai professionista, la psichedelia era sbocciata, per cui i Nice e i Procol Harum furono una enorme fonte di ispirazione. Si, sono autodidatta, non so leggere molto bene la musica e per cui non ho trascritto nessuna delle mie composizioni.

Beh, cominciamo con il primo gruppo, i Second Hand. Due album veramente quotati nella nicchia Underground-Prog. Qual era l’atmosfera all’interno della band e le relazioni tra i componenti?

All’inizio, l’atmosfera nel gruppo era veramente magica. Ci eravamo conosciuti quando eravamo studentelli e ci eravamo subito trovati bene. Era tutto così nuovo e fresco per cui la creatività scorreva libera. Le cose si mettevano bene per noi: avevamo un buon seguito e avemmo la chance di registrare Reality, il nostro primo disco.
All’inizio credo che fossimo visti più come una band incentrata sulla chitarra. Ma all’improvviso il padre del nostro chitarrista, Bob Gibbons, morì tragicamente. Bob cadde in depressione e cominciò a saltare le prove (nel frattempo il bassista George Hart era già entrato a far parte del gruppo). Bob riuscì a venire con noi in tour in Olanda, ma sempre per la sua depressione se ne dovette tornare a casa prima della fine del tour, che comprendeva date in Francia e Spagna.
Questo significò che doveva essere “riempito” in qualche modo il vuoto lasciato dal chitarrista, e quindi passai alla tastiera solista. Ci fu molta pressione e dovetti imparare in fretta. E' così che diventammo una band con orientamento tastieristico e definimmo il suono per “Death May Be Your Santa Claus”. Le relazioni all’interno di noi Second Hand erano buone, ma inevitabilmente a un certo punto diventarono intrise di dolore dato che Bob ci mancava molto.

Su internet ho letto una intervista nella quale dichiarasti che il batterista Kieran O’Connor era una persona molto difficile con la quale lavorare, e che collaborare con lui non era una esperienza gradevole. Se non si tratta di fatti troppo personali o particolarmente imbarazzanti, ci racconteresti quali erano i problemi?

In breve, il problema che avevo con Kieran era il suo alcolismo.
Non per essere critico verso una persona che beve, anche perché pure a me piace, ma il comportamento di Kieran talvolta causava vere e propria distruzioni. Ci furono diverse scene imbarazzanti di fronte a proprietari di clubs, promoters e altri musicisti: fu la causa di alcune risse e tentò di sfasciare lo studio di registrazione un paio di volte.
Talvolta era troppo ubriaco per suonare, di solito aggiustavamo le cose in maniera da tenerlo lontano dall’alcol e mi ricordo di volte in cui dovemmo rimetterlo in sesto prima di registrare: a volte si facevano le 4 di notte prima che fossimo in grado di registrare una backing track.
Detto questo, Kieran era un talento incredibile e aveva straordinarie capacità naturali… ad oggi, è sempre il batterista più talentuoso che abbia mai conosciuto.
Ci trovavamo estremamente bene quando era sobrio, ci amavamo, ma col passare del tempo trovammo che lavorare insieme era troppo difficile e finimmo col non parlare quasi più. Credo che abbia sciupato una delle nostre migliori opportunità (vedi più avanti all’ultima domanda - ndA).

Per coloro a cui piace affibbiare etichette, il gruppo può essere considerato parte del movimento underground inglese. Quali erano i contatti di amicizia con altre band simili?

Conoscevamo gli Egg molto bene, e indirettamente anche i musicisti dei Soft Machine e Hatfield And The North. Conoscevamo anche i Paraphernalia, Colosseum e i Villane: suonavamo tutti nel solito giro di concerti. Ci incontrammo anche con il grande sassofonista Lol Coxhill e con Peter Robinson dei Quatermass. Fummo influenzati da tutta questa gente. Vedevamo anche Klaus Voorman presso lo studio e Mike Hugg (Manfred Mann) infatti usammo il loro mellotron nel nostro primo disco. Una volta facemmo una jam con gli Steppenwolf e mi ricordo che Alexis Korner venne a vederci. Ho letto pure da qualche parte che il nostro primo disco, “Reality”, era uno degli album preferiti di Pete Townsend degli Who, e sembra che ne parlasse spesso.

Perchè pubblicaste il terzo album del gruppo con il nome Chillum? Fu dovuto a questioni contrattuali?

No, non fu per quel motivo. In quel momento avevamo una formazione un po’ differente perché il chitarrista Tony McGill si era unito a noi, e aveva portato dei cambiamenti a livello di influenze musicali. Per cui la ragione fu proprio questo cambiamento: volevamo farlo in maniera anonima. Così, ci demmo dei nomi fittizi. Io ero "Elliott Neck”, Kieran era "Max Fish", George Hart diventò "Sticky Schmultz" e Tony "Buddy Cuddy". L’album fu registrato sul momento, stavamo facendo dei provini per un nuovo chitarrista ed arrivò Tony. Trovammo subito un ottimo rapporto e così la cosa diventò una jam. Mike Craig (il co-produttore nel secondo album) accese un registratore a due piste e registrò ciò che stavamo suonando. Al nostro produttore Vic Keary il sound piacque così tanto che decise che tutto ciò doveva esere pubblicato. Registrammo qualche altro brano, in uno di essi compare solo Kieran alla batteria e nessun altro.
"Land of 1000 Dreams" ebbe una genesi molto curiosa: Kieran si era addormentato sotto il pianoforte e Vic registrò il suo russare e i suoi respiri. Fu fatto con molto silenzio, in modo da no svegliarlo, fu una specie di ninna nanna. Inoltre, venne fuori che Tony sapeva suonare la chitarra acustica jazz, per cui facemmo un numero jazz chiamato in origine “Stairway To The Skies”, ma poi il nome fu cambiato in “Promenade Des Anglais”.
Tutto questo non fu assolutamente programmato, accadde solamente. E poi, credo che il cambio di nome in “Chillum” fu dato un po' dal desiderio di notorietà, dato che il Chillum è un parente della Cannabis. Una delle fotografie che appaiono sull’album furono scattate in un bagno dall’altra parte degli studi di Abbey Road, stavamo fumando uno spinello mentre facevamo pipì.

Parlando della tua successiva creatura, I Seventh Wave, ti aspettavi più successo in termini di vendite, dato che riceveste qualche passaggio in radio? E in termini qualitativi, ti ritieni più soddisfatto degli album con I Second Hand o di quelli realizzati sotto la sigla Seventh Wave?

I Seventh Wave ebbero più riconoscimenti dei Second Hand, ma i nostri brani non ricevettero molti passaggi nelle radio del Regno Unito, solo qualcuno nelle radio locali e in quelle pirata. Eravamo meglio conosciuti in Francia e Olanda, e arrivammo ad essere al settimo posto nelle classifiche FM in America. Facemmo qualche tour promozionale in Europa e nei circuiti universitari, poi negli USA.
Avemmo un ottima risposta dalle etichette discografiche... e speravamo che il successo si sarebbe veramente materializzato, ma non accadde. Per qualche ragione le vendite non decollarono. Sembrava che fossimo veramente una cosa marginale e che non fosse possibile trovare un veicolo che ci permettesse il salto di qualità. Tutto ciò che facevamo era farci venire in mente nuove idee, era un flusso creativo molto impulsivo: lo facevamo per il gusto di farlo, senza pianificazioni da business.
Parlando di soddisfazioni, ricordo di essermi seduto ad ascoltare “Metropolis” e “Old Dog” dopo che furono registrate e mi sentii estremamente soddisfatto dei risultati. Tutto ciò che desideravo era creare un sound completamente nuovo e diverso da ciò che era stato fatto precedentemente. E credo che ci siamo riusciti.

Dato che i Seventh Wave erano un duo, questo tipo di formazione fu scelto in modo da avere una maggiore libertà creativa, senza avere a che fare con un intero gruppo di 4 o 5 musicisti?

Non fu per quel preciso motivo, ma in effetti fu proprio così che andarono le cose, alla fine. Fu solo perchè i Second Hand si erano sciolti e non avevo piani per riformare un nuovo gruppo, e neanche soldi. Anche se i Seventh Wave in realtà furono una idea di Kieran. Non ci eravamo sentiti per un po’, io stavo lavorando come sessionman e compositore di jingles, usando le stesse tecniche che avrei poi utilizzato nei Seventh Wave, mentre Kieran suonava con vari gruppi.
Nonostante non fossimo insieme in una vera band avevamo un po’ di tempo disponibile e decidemmo di tornare a registrare musica insieme. Il produttore, Neil Richmond, era indaffarato in altri progetti, per cui fu qualcosa fatto veramente nel tempo libero. Fu un veicolo per esprimere le nostre ambizioni creative e per sperimentare col suono, qualcosa di simile un progetto artistico.
Il primo album, “Things To Come”, fu creato esclusivamente da me e da Kieran, con tutti gli arrangiamenti fatti da noi, inoltre Kieran figurava anche come produttore (Neil Richmond era il co-produttore).
Per il secondo album, “Psi-Fi”, fummo aiutati da altri musicisti. Pete Lemer (in precedenza con Gilgamesh e Gong, poi futuro collaboratore di Mike Oldfield) e Hugh Banton dei VDGG, entrambi alle tastiere. Steve Cook dei Gilgamesh suonò il basso in alcuni brani. Suonarono con noi anche nei tour promozionali.

Entrambi i gruppi che abbiamo menzionato erano probabilmente troppo avanti coi tempi rispetto ai trend del periodo: i Second Hand mostrarono tendenze psich-prog prima di altri gruppi e i Seventh Wave furono un originale duo di synth. Credi che l’importanza di queste band sia stata trascurata, anche dalla nicchia degli appassionati progressive?

Si, ritengo che entrambe siano state sottovalutate.
I Second Hand furono totalmente ignorati dai media e i Seventh Wave non ebbero una promozione adeguata. Sembrava che non potessimo “infilarci” nelle correnti principali dell’epoca, vale a dire il Prog e il Glam. Guardando al passato, le cose potrebbero essere andate diversamente. Mi ricordo una volta in cui Peter Gabriel, dopo aver lasciato i Genesis, voleva averci come backing band, ma Kieran non si presentò alle prove, per cui perdemmo quella opportunità.

Ho letto da qualche parte che il disco "Death May Be Your Santa Claus”, del 1971, fu composto come la colonna sonora di un fantomatico film. E’ vero? E se si, fu pubblicato?

Si, è vero. Il film "Death May Be Your Santa Claus” uscì nel 1969, ma fu proibito poco dopo perchè era troppo “controverso”. Ma non tutti i brani del disco furono utilizzati nella pellicola, solo un paio di canzoni vi appaiono. Noi dei Second Hand ci facemmo pure una comparsata, suonando una caotica jam session. Il film conteneva anche la prima registrazione della title track dell’album che uscì nel 1971.

Fran Elliott (sorella di Ken): Ho cercato di ottenere una copia del film per venti anni: fino a poco tempo fa, tutto ciò che trovavo su internet erano piccoli cenni, ma il film non era disponibile da nessuna parte. Appariva anche nella lista "most wanted banned films", e ho scoperto che fu diretto da Frankie Dymon Junior (che fu anche in "Sympathy for the Devil" degli Stones).
Ma recentemente, facendo ricerche nella British Film Institute Library, mentre cercavo un altro filmato, lo trovai nella loro mediateca. Non potevo credere ai miei occhi!
Negli archivi è descritto come “un intrigante sguardo alla politica e al sesso visti dalla prospettiva di un inglese di colore”.
E’ un peccato che non si possano guardare quei filmati online, allora qualche settimana fa ho prenotato una postazione video alla BFI e sono andata a vederlo.
E’ un film fatto in casa, molto strano ed artistico, tipico del tempo: i Second Hand vi appaiono brevemente, come zombie in una strana scena in una vecchia casa diroccata. La canzone “Death May Be Your Santa Claus” compare nel film, ed è stato bello sentire una versione più delicata cantata da Ken, cha ha un timbro vocale più dolce di quello di nostro fratello Rob, che cantò quel brano nell’album del 1971. Rob ha una voce più forte, rock e rauca, infatti successivamente divenne il vocalist degli Strider. Devo scrivere al British Film Institute per fargli sapere che i crediti alla fine della pellicola sono sbagliati, Ken non fu molto contento quando glielo raccontai... infatti c’è scritto "music performed by Second Hand, written by "Mott the Hoople" (!!!)
Ken è sempre stato un po' scontento del fatto che i Mott the Hoople abbiano preso il nome Second Hand per una delle loro canzoni, ma non c’entra niente col film... chi ha scritto i crediti del film si è sbagliato completamente


Ringrazio di cuore Ken Elliott per tutta la disponibilità e la gentilezza dimostrata. Un enorme grazie anche per sua sorella Fran, che mi ha dato la possibilità di contattare Ken e che mi ha fornito diverse informazioni inedite. Senza di lei questa intervista non sarebbe stata possibile.

Italian
English