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MOOGG Jessica Attene
 

Anche il 2011 non è passato invano per il Prog italiano e anzi, probabilmente saremo in tanti a ricordarsi di questo anno per l’uscita di album molto belli, fra i quali includo l’esordio discografico dei Moogg. Il loro “Le ore i giorni gli anni” è un concentrato di jazz rock a tinte Canterburyane finemente eseguito, dai riflessi italiani ben chiari e traboccante di… Rhodes! A sciogliere diversi dubbi, anche riguardanti il nome assai curioso, abbiamo interpellato proprio il tastierista Toni Gafforini al quale auguro di cuore che i suoi desideri a breve termine possano realizzarsi appieno.

La prima domanda è forse scontata: perché mai il vostro nome ricorda quello del noto sintetizzatore Moog quando nel vostro album, traboccante di Rhodes, questo non è mai usato?

Riconosco che il suono del gruppo è sempre stato fortemente “rhodes-oriented”: è uno strumento che adoro e che per me definisce un’epoca. Il Moog ha ispirato il nostro nome perché è il simbolo del progressive e del jazz rock dei ’70, ma ti devo dire che è presente in tutti i nostri pezzi! Solo che il riferimento non è al Moog di Keith Emerson, per intenderci (che pure amo), ma al MiniMoog usato dal mio idolo, Chick Corea, nel suo periodo jazz rock (e da tanti altri ovviamente: Ian Hammer, Premoli…). Tutti i timbri di synth che senti nel disco sono ispirati a quelle sonorità. Un suono di Moog “classico” lo si sente invece nel finale de “Il perché di esser me” è in “Welfare Botanico.”

Nella storia del vostro gruppo c’è l’abbandono di un membro importante, il bassista fondatore Rosario Rampulla. Cosa succede in un gruppo quando deve affrontare un momento così delicato e in che modo Gianluca Avanzati si è inserito nella band?

L’abbandono di “Penny” Rampulla è stato in effetti un momento difficile e ha fermato l’attività dei Moogg per parecchi mesi; tieni conto che la vita di un gruppo è fatta spesso di delicati equilibri e non si sa che cambiamenti possa portare un nuovo elemento (il brano “Moogugni” descrive con ironia proprio i momenti di “confronto” all’ordine del giorno in una band come la nostra). Abbiamo fatto diverse audizioni, finché si è proposto Gianluca, che faceva al caso nostro per la profonda conoscenza del genere e l’esperienza di due album realizzati con i Nota Bene. Gianluca si è sobbarcato un notevole lavoro, imparando in poco tempo un repertorio corposo ed impegnativo e fornendo un contributo importante alla compattezza del nostro sound.

Il vostro nuovo album ha come punto di partenza il vecchio demo del 2007, perché avete sentito il bisogno di riprendere in mano quei pezzi e in che modo li avete rielaborati?

Eravamo convinti che il materiale del demo, insieme a pezzi più recenti, potesse ambire alla pubblicazione su un vero disco. Nel frattempo i brani erano stati meglio definiti nei live, dove amiamo improvvisare e apportare cambiamenti; il resto della rielaborazione ha riguardato soprattutto la qualità del suono e la maggior cura che è consentita dal registrare in uno studio professionale.

Il vostro esordio discografico è uscito per una etichetta indipendente italiana, la Mellow, che vantaggio porta una scelta del genere rispetto alla totale autoproduzione del disco, cosa che molti al giorno d’oggi fanno?

Per noi è stato un onore firmare per un’etichetta che ha rappresentato e rappresenta molto per il “nuovo” rock progressivo italiano: penso a band come i Finisterre. L’essere nella scuderia Mellow garantisce, credo, una certa visibilità; certo ritengo sia da rispettare anche la scelta di chi decide di autoprodursi totalmente, cosa che la rete e le nuove possibilità di comunicazione oggi consentono.

Molti hanno individuato i Caravan come vostro principale punto di riferimento, anche se penso ci sia una forte impronta italiana nel vostro sound. Vi ritrovate in questa descrizione?

Anch’io ho riscontrato questo costante riferimento ai Caravan, forse anche dovuto al fatto che il nostro video più visto su youtube è la cover integrale di “9 feet underground”… In realtà, ferma restando la nostra ispirazione alla “scuola di Canterbury”, io troverei un riferimento più diretto negli Hatfield & the North (come in “Welfare botanico”) e nel jazz rock di provenienza americana, magari attraverso la lente dei Perigeo o della PFM di Jet Lag. Detto questo, io sono cresciuto con PFM, Orme, Area e via dicendo, quindi un’impronta italiana nel nostro modo di concepire il prog non poteva mancare.

L’impatto della vostra musica è molto britannico, come mai avete scelto di scrivere testi in italiano?

Quando ho scritto i testi dei brani non avrei mai pensato che la nostra musica sarebbe stata ascoltata all’estero, come sta avvenendo ora; scrivere in inglese mi sarebbe quindi sembrato un po’ come “mascherarmi” dietro al tipico idioma del rock, impoverendo forse le mie possibilità di espressione. Va detto che questo è un genere dove anche il cantato in italiano può essere apprezzato all’estero.

Appare evidente il miglioramento di Marco Dolfini come cantante rispetto al demo di esordio. Visto che Marco è allo stesso tempo anche il batterista, come mai avete preferito proseguire su quella strada (che poi devo dire si è rivelata vincente) piuttosto che cercare un altro cantante o addirittura optare per una soluzione strumentale?

Nella registrazione del disco abbiamo curato il più possibile le parti vocali. I Moogg sono però essenzialmente un gruppo strumentale: questo è evidente dal vivo anche se forse meno sul disco. Per la brevità delle parti vocali non ci è sembrato opportuno introdurre un cantante; peraltro io ritengo che la voce di Marco sia molto espressiva e adatta ai miei testi.

Che evoluzione pensate che prenderà il vostro sound, si spingerà più sul versante inglese, più verso quello italiano, oppure ricorrerete ad un Moog oppure ancora farete un uso più massiccio del bellissimo Mellotron che possiamo apprezzare in “Welfare Botanico”?

Stiamo già lavorando a nuovo materiale, che parte dal prog ma è più direttamente ispirato ad un jazz rock di derivazione americana con colori funk…siamo piuttosto carichi, ci piace quello che sta nascendo!

La vostra musica deve avere un bellissimo groove dal vivo, che impatto ha sul pubblico? Potete fare un breve bilancio della vostra esperienza live?

I Moogg danno sicuramente il meglio dal vivo; poiché è noto che il nostro genere non va certo per la maggiore nei pochi locali che programmano musica live, siamo abituati a conquistarci il pubblico ogni sera, e in genere il riscontro è molto buono. Certo non abbiamo la possibilità di suonare molto spesso, ma credo questo sia un problema comune per chi fa questa musica. Fortunatamente, grazie al disco stiamo ampliando il nostro raggio d’azione ed ottenendo la possibilità di suonare più fuori provincia.

Esprimete pure un desiderio musicale per il nuovo anno appena iniziato.

Il desiderio è che “Le ore i giorni gli anni” ottenga la maggior diffusione possibile, di suonare molto dal vivo e di avere l’opportunità di realizzare il secondo disco, che sta prendendo forma!



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