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YLECLIPSE Nicola Sulas
 

Alessio Guerriero è il chitarrista, la voce e la guida degli Yleclipse, che con cinque album all’attivo sono riusciti a raggiungere un traguardo di tutto rispetto nell’ambiente musicale della regione da cui provengono, la Sardegna, oltre che a livello nazionale. In questa lunga chiacchierata abbiamo parlato con lui di vari temi, riguardanti il progressive e alcune problematiche ad esso legate.

Parliamo di “Songs from the Cracking Atanor”. Puoi dirci come sono stati composti i pezzi?

I brani sono nati nel modo più consueto, con delle lunghe jam domestiche attorno a delle idee sviluppate da me ed Andrea Picciau, tra chitarre e tastiere. Le linee ritmiche sono state costruite in modo graduale e più curato che in passato, come si evince anche dalla maggiore presenza di percussioni. Si tratta di sonorità acustiche, in qualche caso abbiamo anche costruito dei rudimentali oggetti percussivi, come nel caso della opener acustica. Come sempre la sezione ritmica è affidata a Federico Bacco ed Andrea Iddas. Si tratta di un disco registrato con calma. È un modo di lavorare che abbiamo utilizzato in tutti gli album, a parte un solo caso. Preferiamo utilizzare lo stesso studio di registrazione, con tecnici con cui abbiamo un rapporto di amicizia. Se c’è una cosa che non sopporto, è lavorare negli studi dove appena entri scatta il tassametro e sei costretto a fare le cose di fretta. Preferisco metterci molto più tempo ma lavorare con piacere. Approfittando di tale disponibilità, ho voluto anche cimentarmi per la prima volta alle tastiere, che suono nella quarta traccia del cd “A jinnee be freed”.

Quali sono i brani che più rappresentano gli Yleclipse, sia nell’ultimo disco che nei precedenti?

Credo “Opus”, la title-track del nostro CD del 2006, oltre a “The day the wooden Leopard roared” da “Trails of Ambergris” (2008), e nell’ultimo lavoro, uscito a dicembre 2012, forse il brano più significativo è “Gentle breeze” nel quale sono presenti tutti i tratti fondamentali dello stile espressivo, aggressività peculiarmente “rock”, trame strutturate, ma anche grande attenzione alla melodia.

L’artwork dei vostri dischi è sempre stato molto curato. Come viene ideato e realizzato?

Innanzitutto ho sempre scelto di non inserire le nostre foto nei libretti. Lo trovo poco rappresentativo e fuori contesto rispetto a quello che facciamo. L’oggetto della nostra rappresentazione non siamo noi. In questo senso ho una visione molto floydiana della musica: gli individui non contano nulla, conta la musica. L’individuo è solo uno strumento dell’oggetto musicale. È anche per questo che mi sono sempre trovato più a mio agio in un contesto sperimentale progressivo che in uno main-stream.

Chi realizza l’artwork?

Alessandra Murgia, un’insegnante di scuola superiore che ha realizzato in passato molte illustrazioni per l’infanzia e per libri vari. Mi piace il suo stile, anche perché ha creato per noi copertine ricche di particolari, con colori intensissimi. Il mio sogno è sempre stato quello di realizzare dei vinili, in modo da rendere al meglio queste particolarità con un formato più grande. Non so se hai notato ad esempio che il galeone di “Trails of ambergris” si chiama Karalis (in caratteri greci).

Chi ha l’idea di base delle copertine?

I concept sono miei. Do semplicemente le indicazioni ad Alessandra, chiedendole cortesemente di lavorarci sopra. Lei, con calma, senza pressioni, lo fa e riesce sempre a realizzare quello che avevo in mente, come se fra noi ci fosse una sorta di telepatia. Tra l’altro, se pensi che ho incontrato di persona Alessandra solo tre volte, grazie al fatto che è sorella del nostro fonico, la cosa è ancora più interessante.

Torniamo un po’ indietro nel tempo. Come sono nati gli Yleclipse?

Il “progetto” Yleclipse, anche se a me non piace molto chiamarlo in questo modo, nasce semplicemente da un gruppo di amici che negli anni hanno condiviso una scelta stilistica. Sin dagli inizi però non ci siamo mai considerati dei veri e propri musicisti, neanche per aspirazione adolescenziale. Abbiamo tutti altri lavori e abbiamo sempre avuto tutti una grande passione per la musica, ma allo stesso tempo ci siamo sempre sentiti un po’ a disagio nel contesto musicale. Questo ovviamente ha influito molto sul rapporto con l’ attività live.

Eppure, nei pochi concerti fatti in passato avete dimostrato di essere un’ottima live band. Come mai non siete riusciti a sviluppare maggiormente questo aspetto?

A parte le difficoltà oggettive non dipendenti da noi, non abbiamo una grande sintonia con le esibizioni dal vivo, e anche se ci sono state delle possibilità, non è mai stato semplice sfruttarle. Ti faccio un esempio, abbiamo recentemente avuto un contatto per suonare vicino a Francoforte, in Germania, ma sono sorte una serie di difficoltà che ci hanno impedito di concretizzare la possibilità. Non è tanto il fatto di dover suonare fuori, quanto la difficoltà economica per farlo, se si parla di “one off”.
Qualche anno fa abbiamo suonato alla Progvention di Mezzago, ed è stata un’esperienza bellissima ma un massacro dal punto di vista finanziario. Questa è una cosa che ci tengo a rimarcare quando si parla di attività live, e sfido i progsters a dire il contrario: si va sempre in perdita, fatta eccezione per realtà particolari come ad esempio The Watch. I locali, qui come altrove, non pagano, oppure i forfait che ti danno non sono spesso neanche sufficienti a coprire le spese. Oltre a questo, si tratta di qualcosa che interessa poche persone. Mi sono accorto di questo sia come musicista, che come spettatore poiché anni fa facevo molti concerti con altri gruppi e suonando altri generi, ed era un’attività quasi professionale grazie alla quale mi sono pagato gli studi.
Per quanto riguarda il progressive, i vari festival sono come ammantati da un alone mistico mentre in realtà sono organizzati principalmente da promoters ed appassionati che programmano qualche serata seguita da uno scarso numero di persone. È molto più facile quindi, che nello stesso luogo la sera prima ci siano state 300 persone a seguire una cover band dei Dire Straits piuttosto che a seguire il festival. Se ci fai caso, inoltre, i festival di piccola caratura sono spariti quasi tutti, anche dal contesto europeo. Quelli che stanno resistendo puntano ancora sui nomi gloriosi, senza dare spazio alle nuove realtà e contribuendo quindi a danneggiare il genere, con una scelta suicida. Il fatto è che questi grandi nomi, che tutti ormai adoriamo più che ascoltare, per un fatto anagrafico prima o poi non ci saranno più…

Secondo te quanti dei musicisti operanti nel genere sono veramente professionisti?

La situazione del progressive è paradossale. Mi ricordo a proposito di una frase detta tempo fa da Mauro Moroni: “ci sono più musicisti che ascoltatori”, secondo me assolutamente vera. Credo che a livello mondiale 9 su 10 non siano professionisti, se rimaniamo nel progressive. In Italia poi siamo molto diversi dai musicisti “professional” in senso anglosassone. Se ci riferiamo ancora ai personaggi storici, un conto è avere ancora visibilità, un conto è essere veramente dei professionisti. E infatti anche loro hanno tutti altre attività, magari pure nel campo della musica. Quando ero più giovane ho fatto anche io la vita da musicista, suonando nei locali e nelle piazze. A un certo punto ho dovuto darci un taglio per poter completare gli studi. In ogni caso questa attività è una cosa a parte, non ha niente a che vedere con la creatività.

Cosa pensi delle reunion dei grandi gruppi del passato?

Sono bellissime ma hanno un valore solamente storico, non aiutano il genere. Questo è un danno, se consideriamo che il progressive dovrebbe essere una musica di nicchia. Se pensiamo al pop, le case discografiche non investono mai sui gruppi ma sui personaggi, più facili da gestire e più sfruttabili quando si tratta di fare grossi investimenti, che alla fine riguardano quasi sempre i soliti nomi. Forse l’unico genere che si salva è il jazz, molto più libero in questo senso.

Come vedi il rapporto tra il pubblico del progressive e gli artisti? Credi che ci sia reale comprensione delle dinamiche all’interno di una band impegnata a comporre e realizzare musica?

Bisognerebbe che il pubblico capisse la differenza tra il mestiere del musicista e l’essere un creativo. La sensazione che ho avuto leggendo i post di certi followers dei forum specializzati è che questi non sappiano minimamente cosa vuol dire fare musica. Non conoscono la differenza tra una chitarra e uno scaldabagno, non sanno cosa sia uno studio di registrazione e cosa voglia dire realizzare un master per un disco. L’attività creativa ha una sua disciplina, un suo rigore e delle sue dinamiche, diverse per ogni genere, e il pubblico non le conosce. C’é senz’altro troppa gente che parla a vanvera. Io inviterei le persone, prima di dare giudizi, e questo vale anche al di fuori del progressive e al di fuori della musica, ad informarsi. Purtroppo è anche colpa di internet, che ha creato questa mistificazione che fa si che tutti abbiano la possibilità di parlare senza che in realtà nessuno ascolti veramente la musica. Lo stesso avviene per le recensioni. La maggior parte di esse sono superficiali, di poche righe. Molti fanno recensioni senza neanche ascoltare il disco, oppure le fanno ascoltando gli mp3 scaricati. Per restare sugli Yleclipse, mi è capitato più volte, anche sul forum di Arlequins, di leggere commenti da parte di alcuni utenti come “io non li avrei neanche fatti entrare in studio”, che sono senza senso. Per come vengono realizzati gli album, una cosa del genere non la decide il produttore, semplicemente perché tale figura non esiste. I produttori di progressive sono in realtà editori, e investono i propri soldi solo nella stampa, mentre master e grafiche vengono realizzate dagli artisti. Questo avviene anche nel pop, almeno al livello base. La vecchia figura del direttore artistico, che metteva bocca anche nel missaggio delle tracce, è una figura ormai scomparsa, almeno per i generi di “nicchia”.

Le critiche che solitamente vengono mosse agli Yleclipse come si inseriscono in questo discorso?

Nel nostro caso, purtroppo, sono necessari dei compromessi. Le osservazioni che ci vengono fatte sono condivisibili, anche riguardo alla mia voce. Io non ho mai pensato di essere Robert Plant, e so benissimo che il mio modo di cantare è inadeguato, però quando hai poco tempo e un budget limitatissimo non puoi permetterti di selezionare un turnista la cui prestazione magari va a costarti più della registrazione di un singolo brano. Ovviamente l’utente giudica il risultato finale, ed è giusto che sia così, però bisognerebbe almeno cercare di contestualizzare il problema. Il fatto che oggi con della strumentazione mediocre chiunque possa ottenere risultati accettabili è diventato un’arma a doppio taglio. Se consideriamo poi che i dischi non si vendono più e non ha senso investire in promozione, è facile capire come sia impossibile recuperare denaro da questa attività.

Da dove vi arrivano maggiormente gli apprezzamenti per la vostra musica?

Apprezzamenti e vendite arrivano principalmente dall’estero, a conferma del fatto che questo sottogenere del progressive, chiamiamolo neo-prog - anche se nel nostro caso il termine ci sta un po’ stretto, in Italia interessa poco. Siamo apprezzati in Germania ed in Giappone, e siamo conosciuti in paesi nei quali la stessa Mellow Records normalmente non vende, come Norvegia o Finlandia. Abbiamo ricevuto critiche positive anche dall’Indonesia ed ultimamente dalla Romania.

Credi che questa situazione sia dovuta al cantato in inglese?

No. Secondo la mia opinione, in Italia, per motivi storici, esiste un’ostilità totale verso il neo-prog ed il new-prog. L’Italia, dopo l’Inghilterra, è il paese che ha la più forte tradizione progressiva “nazionale”. Discostandoti da questa tradizione sembra quasi che tu voglia scimmiottare quello che fanno gli inglesi. Per quanto mi riguarda non è assolutamente così, dato che sono cresciuto ascoltando principalmente musica anglosassone. Il mio riferimento artistico non è mai stato quello italiano, in casa si è sempre ascoltato il rock classico e la musica anglosassone, a partire da mio nonno, militare dell’aeronautica italiana, che lavorando a contatto coi militari americani si era interessato molto ai dischi “con le chitarre elettriche”. Era infatti un grande fan di Les Paul e fu il primo a portare qui i suoi dischi. Essendo diventato poi un controllore di volo insistette molto perché i suoi nipoti imparassero l’inglese. Se contiamo inoltre che i miei genitori appartengono alla generazione del beat e del rock, per me è normale che tra circa un migliaio di dischi che possiedo solo una decina siano italiani. Per me quindi il fatto di cantare in inglese e di riferirci a modelli musicali anglosassoni non è stata un scelta esterofila, si tratta semplicemente della mia forma mentis, di qualcosa che si trova nel mio DNA. Mi ricordo una critica che mi aveva fatto morire dal ridere, si trattava di qualcuno che aveva scritto un commento del tipo: “gli Yleclipse suonano bene ma sono dei provinciali perché cantano in inglese. Perché non utilizzano ad esempio il latino della nostra tradizione?”, facendo probabilmente riferimento ai Deus ex Machina, coi quali c’è ovviamente anche una evidente differenza di proporzioni. In ogni caso preferisco l’inglese anche perché l’italiano si adatta meno alla musica dal punto di vista metrico.

Parliamo dei vostri testi. Ho notato che sono molto curati e ricercati. Come nascono e di cosa parlano in generale?

Li scrivo io. Mi è sempre piaciuto farlo e il linguaggio è volutamente ricercato. Il contesto a cui appartengono è quello dell’alchimia, soprattutto nel suo linguaggio simbolico. Ovviamente mi riferisco all’alchimia spirituale, non a quella materiale, cioè quella riguardante le fasi che caratterizzano la vita spirituale dell’essere umano, dalla più bassa, il nadir, a quella più alta di resurrezione, l’albedo. È un mio interesse anche dovuto al fatto che ho una formazione umanistica da medievista e da archivista, che è anche il mio lavoro. Sono appassionato di documenti antichi, pergamene, sigilli, grafie antiche e quant’altro, quindi mi viene spontaneo trasferire nei testi queste conoscenze. Negli ultimi anni però, l’aspetto medievistico e favolistico ha lasciato spazio ad cose più introspettive. Nell’ultimo disco ho voluto parlare dello stato di prostrazione spirituale in cui si trova attualmente la civiltà occidentale, ormai vicina allo stato di “nadir” (il punto più basso, nda), dovuto al fatto che sta entrando in crisi il sistema di valori dell’occidente. Vedo scoramento e disorientamento da parte delle persone, che non riescono a trovare un punto di riferimento. È qualcosa che ha a che fare con la sociologia e l’antropologia, non solo con la politica.

Quali sono i tuoi riferimenti come chitarrista?

Sicuramente Steve Hackett, ma devo dire che non ho mai amato l’approccio di chi cerca di rifarsi alla perfezione ai propri riferimenti, per questo non sopporto più di andare ad ascoltare le cover band, anche se non ho niente contro di loro ed in passato ne ho fatto parte anche io. Mi capita spesso di rifare brani di Hackett e di postarli su youtube, ma quando lo faccio, anche quando si tratta di pezzi per chitarra classica, cerco sempre di farlo in chiave personale.
Forse il più grande chitarrista tra tutti è David Gilmour, che tecnicamente oggi è poco significativo ma che possiede un gusto unico, a cui nessuno dei techno-shredders del mondo può avvicinarsi. Non sopporto l’ossessione della velocità che si è sviluppata col progressive metal, anche perché il cercare di suonare troppe note rende il risultato finale poco intelligibile. Personalmente, non sono in grado di seguire il modo di suonare di questi chitarristi. Un conto è fare ginnastica sullo strumento, un conto è emozionare. Uno come Keith Richards, con quattro accordi, riesce a procurarmi la pelle d’oca. Tra l’altro, i miei primi interessi nel campo della musica riguardano il blues ed il rock, non il progressive… artisti come John Lee Hooker, Eric Burdon, Canned Heat e Rolling Stones. Mi piace Richards perché ha un suono sporco ma unico. Hackett, invece, è uno che può mettersi in tasca chiunque e può suonare qualsiasi cosa, ma se vuole suonare un blues usando solo la pentatonica può farlo. Questo perché, come disse lui stesso tempo fa, nel blues non c’è bisogno di reinventare la ruota. È un atteggiamento che si sta perdendo perché purtroppo si è creata una generazione di “insegnanti di musica” fighetti, fissati con le clinics e i workshop. Tutti sono in cattedra, ma nessuno ascolta niente di quello che fa l’altro.

Sei un chitarrista autodidatta?

Totalmente. Ho iniziato con una chitarra regalata a mio padre per la laurea, a cui fu spezzato il manico inavvertitamente da un mio conoscente, ma che ebbe un destino catartico durante una rappresentazione teatrale di “The Wall” a cui partecipavo. Era una produzione da ragazzi ma fatta bene, con dieci persone sul palco, coristi ed il muro di cartapesta che crolla alla fine dello spettacolo. Mi serviva una chitarra da distruggere sul palco quindi la usai, proprio perché in realtà era già rotta. Il fatto di essere autodidatta mi crea dei limiti nella diteggiatura, ma non è un problema. Ho provato varie volte a studiare su metodi per sviluppare la tecnica, col risultato che alla quarta o quinta lezione ho sempre lasciato perdere. Semplicemente non è roba che fa per me.

Mi sembra di avvertire nel tuo stile qualche vaga influenza di Jimi Hendrix.

Certamente! Da ragazzino ero fissato. In un certo modo mi vestivo anche ispirandomi a lui. Avevo i capelli lunghi e usavo abbigliamento anni ’70 e psichedelico. Era anche uno stile di vita, ho fatto parte delle compagnie che si riunivano al “Bastione” di Cagliari con chitarre e bonghi. Ti parlo di parecchi anni fa, ora mi sono completamente imborghesito.

Sei autodidatta anche dal punto di vista vocale?

Ovviamente. In effetti non sono neanche un vero cantante, e canto per necessità. La mia voce non è educata e il mio timbro non piace neanche a me. Tra l’altro, è molto difficile trovare bravi cantanti, soprattutto bravi cantanti prog. Trovi facilmente solo persone cresciute vocalmente ascoltando i Dream Theater, oppure heavy metal o hard rock, che si cimentano nel progressive con scarsi risultati.

Quali sono le tue voci preferite nel genere?

Per i miei gusti personali, la più grande voce in assoluto è quella di Peter Hammill, il quale, oltre ad essere molto dotato, ha un’incredibile capacità interpretativa, secondo me molto più di Peter Gabriel che, ti dico la verità, non mi ha mai entusiasmato, né coi Genesis, a parte il primo periodo tra “Trespass” e “Selling England…”, né come solista. I miei album preferiti dei Genesis sono, tra l’altro, “Selling…” e “Duke”. “Duke” è un disco assolutamente prog, con soluzioni sinfoniche bellissime. Il Gabriel solista, compresa tutta la fase della world music, non mi è mai piaciuto. È uno che si è sopravvalutato molto dal punto di vista artistico, e anche nei Genesis non era assolutamente lui l’anima del gruppo. Il contesto della “famiglia” di Gabriel non è affine al progressive, come ho avuto modo di constatare parlando con vari musicisti, tra cui il chitarrista David Rhodes, che mi ha raccontato di non essere propriamente un fan del prog, nonostante suoni spesso nei festival di tale genere. Questa è una cosa che accomuna molti grandi nomi del genere… oltre al fatto che dire che suoni progressive porta sfiga! Se poi vai a dire ai Marillion che fanno new-prog, ti ridono in faccia.

Come vedi la situazione attuale del genere progressive?

Siamo in una fase di declino. Il prog in origine non era altro che pop. L’esigenza di classificare come prog questa musica è nata dopo, anche a causa del mondo fanzinaro inizialmente e di internet in seguito. La musica non è come una teca entomologica, i confini al suo interno sono molto più labili e questo scoraggia molto i potenziali ascoltatori all’avvicinarsi al genere, complice l’alone di muffa e settarietà che si è creato, esattamente come accade quando fai ascoltare a qualcuno un brano prog che inizialmente apprezza, per poi tirarsi indietro quando gli spieghi tutto il background che c’è dietro al genere. Diventa un po’ una cosa da circolo bocciofilo. Tutto questo ha contribuito al declino. Dal punto di vista commerciale, poi, il prog non ha più nessuna rilevanza.
Quello che non sopporto, inoltre, è la guerra tra poveri che si è creata, che fa veramente ridere. Il livello di animosità e litigiosità presente nel campo è sconcertante, soprattutto se consideriamo che si è sviluppata in un ambito di persone con scarsissimi riscontri effettivi. Tutto questo è molto triste, proprio perché a causa dell’esiguità delle risorse presenti nel genere ci vorrebbe maggiore coesione e solidarietà tra i musicisti, invece ognuno sta nel suo orticello badando bene a non fare entrare nessuno. Esiste un’incapacità totale di fare sistema, di fare rete, che ha portato all’impossibilità di creare una vera scena. Nessuno è capace di interagire con l’altro, e questo deriva da una sostanziale mancanza di umiltà. Credo anche, da quello che ho visto in questi anni, che la qualità umana di queste persone non sia elevatissima. L’atteggiamento di molti nomi altisonanti della cosiddetta scena attuale, e non mi riferisco ai mostri sacri ma a musicisti della mia generazione o poco più avanti, è spesso da montati. Si tratta di persone a cui hanno detto per vent’anni che sono degli strafighi e che quindi si sono costruiti un personaggio su questo. La realtà è diversa, e se queste persone escono fuori dall’ambito dei propri adoratori alla fine non sono nessuno, anche considerando i cosiddetti nomi di grido del progressive… e non mi riferisco di certo agli Yleclipse. Definirsi artista internazionale è un’esagerazione, e non basta aver suonato in qualche festival all’estero. È segno di una profonda mancanza di umiltà, l’ergersi su un piedistallo e dare lezioni agli altri solo per il fatto di aver avuto qualche sporadico riscontro.

Pensi che sia una situazione solo italiana? Hai mai avuto esperienze musicali all’estero?

Sì, in Francia molti anni fa, suonavo con due amici francesi in una sorta di rudimentale power-trio che si chiamava “Abominable sens”. Sono stato anche in Gran Bretagna ed in Canada, dove ho conosciuto persone a cui non avresti dato una lira, che magari cucinavano hamburger nel fast-food all’angolo ma che contemporaneamente erano musicisti di livello tecnico mostruoso, con i quali mi trovavo anche in imbarazzo a fare una jam session nei localini. All’estero c’è molta più umiltà e voglia di confrontarsi. La musica dovrebbe essere uno strumento d’aggregazione sociale, è in Italia non è più così. Io ho passato i migliori anni della mia vita suonando nei locali del centro storico di Cagliari, quando bastava una chitarra, qualche percussione e qualche sigaretta per sentirsi al massimo. Ora fare musica è diventato solo una continua ricerca di followers per avere una legittimazione. Se la musica è diventata questo io non voglio più definirmi musicista, non mi piacciono i musicisti e non mi piace il modo in cui litigano e si lanciano frecciatine tra loro sfogando il proprio ego. A me interessa solo la musica, non la “persona musicista”.

Cosa pensi della scena musicale sarda?

Mi dispiace dirlo, ma la musica in Sardegna non ha raggiunto lo stato della maturità. Giocoforza, il nostro contesto è ancora più ristretto che nel resto dell’Italia. Il progressive poi, qui non ha una tradizione, c’è solo qualche cover band, e i pochi progetti originali esistenti, anche validissimi, non troveranno mai pieno apprezzamento. Se restiamo sugli Yleclipse, tu non hai idea dell’ostilità e dell’ostracismo totale che la scena cagliaritana ci ha riservato.

A cosa credi sia dovuto?

Quando lavori sulla musica, fai master e pubblichi dischi, crei problemi a quelli che si accontentano di suonare cover. Quando abbiamo iniziato ci siamo sempre posti in un’ottica di collaborazione con gli altri, ma dagli altri c’è sempre stata molta chiusura, perché pensavano che stessimo cercando di rubargli la visibilità, è un atteggiamento tipicamente provinciale. Non ho mai amato il contesto musicale sardo perché qui si misurano le capacità di un musicista in base alle serate che fa, fatto che per me è di un livello culturale infimo. Alla fine quello che fai durante le serate, si disperde nel vento una volta che spegni l’amplificatore. L’unica cosa che rimane sono i dischi.

Parlaci del futuro degli Yleclipse.

“Songs from the crackling atanor” potrebbe essere l’ultimo disco degli Yleclipse, e il brano “Nadir voices” fa riferimento anche a questo. Non si tratta di mancanza di voglia di fare ancora musica, semplicemente credo che quello che avevamo da dire lo abbiamo detto. Posso smentirmi, dato che non ho l’ossessione della coerenza, ma per ora non c’è niente in programma. A livello personale, mi piacerebbe confrontarmi con qualcun altro, fare collaborazioni e partecipare ad altri progetti, anche perché le idee non mi mancano, e le metto da parte continuamente.

Cosa pensi che rimanga di positivo nell’esperienza Yleclipse?

I dischi. I dischi sono l’unica cosa che rimane. Per molti anni ho cercato di fare più serate possibili, poi mi sono accorto che non serviva a niente e l’unica gratificazione la trovavo dal comporre. È ovvio che se ne avessi avuto la possibilità mi sarebbe piaciuto andare in tour, fare delle esibizioni sporadiche invece non mi attira. Magari sbaglio, però mi fa estremamente piacere che ci siano persone a cui piace ascoltare i nostri dischi. Piuttosto, mi sarebbe piaciuto fare qualcosa nei teatri, che trovo un contesto ideale per la nostra musica, ma ormai con i problemi, anche seri, che riguardano alcuni componenti del gruppo, non è più possibile sviluppare niente del genere.

Vuoi aggiungere qualcosa per chiudere?

Mi preme ringraziare Arlequins per lo spazio che ci ha dedicato in questi anni, per aver parlato di noi sin dalla prima recensione nel 2000. E anche per le critiche, ovviamente, che, se costruttive, sono sempre bene accette. Riguardo agli Yleclipse, anche se forse non ci saranno altri episodi di questa esperienza, mi auguro di essere riuscito a trasmettere a chi ci ascolta quello che volevamo dire e la nostra rabbia inespressa nel voler fare musica.


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