Home

 
WAKHEVITCH, IGOR Docteur Faust Pathé Marconi 1971 FRA
 

Non è possibile rimanere indifferenti all’ascolto degli stupefacenti paesaggi sonori descritti da Igor Wakhevitch. Nell’arco degli anni questo autore avanguardistico francese, ha saputo rappresentare in musica veri stati d’animo e, pur avendo trattato essenzialmente musica molto tesa e drammatica, l’ascolto delle sue opere ha il fascino immenso nella completezza. Pur lavorando ancora oggi sul fronte dell’arte musicale, intesa nella sua più ampia accezione, il Wakhevitch degli anni ‘70 è senz’altro quello che per noi ha il maggior interesse. Dal 1970 al 1979, infatti, propose sei dischi di notevole spessore, improntati ad un’avanguardia spesso senza freni e senza mezze misure, difficile, cerebrale e molto, molto emozionale. Trovare i sei dischi citati è un’impresa non da poco e anche il cofanetto, uscito nel 1999 per la Fractal Records, che li raccoglie tutti sotto il nome di “Donc …” è ormai cosa ardua.
Tra questi, forse il più noto e controverso è Docteur Faust, del 1971. Per alcuni il preferibile della discografia, per altri il più odiato ed osteggiato, visto come ostico, troppo libero e improvvisato, a tratti indecifrabile, allucinato nel suo contorcersi su se stesso, per altri un capolavoro, un colpo di genio il cui fascino è dettato dalla grande trasversalità di proposte, dalle improbabili e inattese svolte, dalla fantasia che rotola di solco in solco, rinnovandosi e lasciandosi alle spalle la pelle della muta precedente, in totale abbandono.
Dopo il brevissimo intro parlato l’atmosfera del primo brano “Materia Prima” ci fa capire immediatamente che il viaggio non sarà facile. L’ascolto ci getta in un intrico di gallerie sotterranee, concatenate e apparentemente senza uscita, La claustrofobia generata è totale. Gli stati d’animo si susseguono tra buoi totali e fugaci apparizioni luminose che, svanite, rendono ancora più spaventoso il buio che si pone a noi innanzi generando strane forme sonore: parti corali che sanno di morte, ritmiche strascicate e psichedeliche, stridori, clangori, urla e percussioni sovrastate da un uso ipnotico dell’elettronica, il tutto a formare una sinfonia che spesso riporta più alla musica classica contemporanea che non al progressive, normalmente noto.
Concettualmente folle la successiva “Eau Ardente” il pratica un sermone in latino con la voce catturata da chissà quale messa e sulla quale schioccano le frustate delle pene che ritornano all’inquisizione che le promosse, il finale rumorista e caotico, dagli spunti industriali e ossessivi sembra volerci far sbattere la testa tra i materassi di un’improbabile sala insonorizzata di un vecchio ospedale psichiatrico, per poi buttarci fuori in un nuovo mondo elettronico, dove si rincorrono altre sinfonie sperimentali, mutuate da certo Edgar Varese e, talvolta, dai peculiari tratti floydiani. Ed è qui, in questa coreografia spettrale, agitata tra le colonne di un oscuro chiostro, che troviamo la tragica “Tenebres” o la spaesata, onirica e trascendente “Matines” libero connubio di elettronica e rumoristica di cantiere. Nata da altro impasto è la particolarissima “Licornes”, sfuriata rinascimentale sballottata tra clavicembali, nitriti fuori ritmo ed evocative chitarre psichedeliche. Ancora più folle il finale, lasciato a "Sang Pourpre", devastazione dei temi Hendrixiani tra chitarre e urla voodoo e quel porpora che dal mito di Galatea, passa attraverso la psichedelia e giunge ad inondare un oltretomba chiassoso e pennellato come i pensieri di un’anima tormentata.
Un trionfo sperimentale, fantastico persino nel suo eccesso, nella sua evanescente pretenziosità, geniale e creativo, per certi versi unico e imperdibile.

Bookmark and Share

Roberto Vanali

Italian
English