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DOG THAT BIT PEOPLE The dog that bit people EMI / Parlophone 1971 UK
 

Per tracciare la storia di questa band dal nome così bizzarro è necessario risalire addirittura alla metà degli anni ’60 e spostarsi al centro dell’Inghilterra, precisamente a Birmingham. E’ qui che nel 1967 prende forma il nucleo dei Locomotive, band capitanata dall’organista Norman Haines che realizzò una manciata di singoli di discreto successo mescolando pop, soul, psichedelia e reggae. Queste disparate influenze saranno poi sintetizzate in un sound personale e progressivo ante-litteram - caratterizzato dal ruolo prominente svolto dai fiati - e convergeranno nell’unico album “We are everything you see”, pubblicato due anni più tardi.

Purtroppo i singoli estratti dall’album non otterranno il successo sperato, situandosi “a metà del guado” tra il pop degli esordi e la nuova direzione, costringendo la band al prematuro scioglimento: il leader Haines tenterà l’avventura solistica e realizzerà un album con la band che porta il suo nome (rifiutando un’offerta da parte dei Black Sabbath), il flautista Chris Wood si unirà ai Traffic e il sassofonista Dick Heckstall-Smith – scomparso di recente e qui in veste di turnista - si farà un nome nelle fila dei Colosseum e nella scena jazz britannica.

E’ la sezione ritmica, formata dal bassista Mick Hincks e dal batterista Bob Lamb - entrambi reduci da una collaborazione con i Tea & Symphony - a formare il nucleo del “cane che mordeva la gente” (dal titolo di un racconto dell’umorista statunitense J. Thurber), i cui ranghi erano completati da John Caswell (voce, chitarra) e Keith Millar (voce, chitarra, piano, organo, Mellotron e armonica), anch’essi membri di una tardiva incarnazione dei Locomotive e principali compositori dei brani. L’unico album di questa band (registrato negli studi di Abbey Road della EMI ed oggi così raro da raggiungere la quotazione di 120 sterline!) dimostra come negli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70 fosse in realtà difficile se non impossibile catalogare per compartimenti stagni le proposte musicali (come invece avverrà negli anni a seguire…), essendo queste il risultato di un lavoro di forgia in cui hard rock, blues, folk e psichedelia erano costantemente rimescolate in un ideale melting-pot sonoro. In altre parole, la corsa all’emulazione era ancora lontana e le sorgenti da cui attingere erano varie e difformi: l’attitudine progressiva prevaleva sulla tentazione di attenersi alle sonorità dei fortunati archetipi progressivi.

Questo per anticipare l’eclettismo della band e l’eterogeneità degli stili contenuti nell’album, formato da 12 brani piuttosto brevi: una ricca vetrina di gioiellini d’artigianato sonoro che trovano una loro dimensione compiuta nell’arco di soli tre o quattro minuti.

E’ possibile ricondurre gran parte delle canzoni a due filoni di massima, probabilmente segno che la band possedeva due anime musicali piuttosto distinte: i brani infusi di hard-blues, accreditati al duo Hincks/Lamb e le ballate folk-rock a firma del tastierista Millar e del chitarrista Caswell, entrambi anche voci soliste.

Abbiamo così una manciata di brani semi-acustici impreziositi da un uso parsimonioso del Mellotron e dell’Hammond e le cui delicate linee vocali sembrano uscire dai solchi dei dischi dei Fantasy, ma con arrangiamenti spesso più minimalistici: su tutte “Tin soldier” e l’apertura di “Goodbye country”; il singolo “Lovely lady” e “Cover me with roses” possiedono la stessa levità degli episodi più spensierati dei Fruupp ma con l’aggiunta di alcune influenze west-coast nelle armonie vocali degli incisi (il primo David Crosby non è così distante); impossibile infine restare indifferenti alla poesia di “Walking”: qui la voce e gli archi creano un’atmosfera irreale che ci trasporta verso brumosi scenari bucolici inglesi senza possibilità di scampo. L’altra faccia della medaglia è rappresentata da titoli come “A snapshot of Rex”, un brano soul senza troppe pretese, il blues di “The Monkey and the Sailor” con interludi organistici a contrapporsi alle ruvide parti vocali e l’atipica “Reptile man”, un rock tirato con tanto di voce distorta da autentico ”uomo rettile”.

Completano l’album gli episodi che fondono con successo le due tendenze: “Sound of thunder” a dispetto del fragoroso titolo evidenzia ancora tracce di acid-folk, mentre le accattivanti “Mr. Sunshine” e “Red Queen’s dance” strizzano l’occhio ai Traffic: in particolare la seconda, che si apre con il suono di un corno e si trasforma in un frizzante brano pop-rock.

Purtroppo quest’ottimo album resterà l’opera unica della band e passerà pressoché inosservato, nonostante l’epoca fosse piuttosto ricettiva verso le proposte folk-rock britanniche (Pentangle, Fairport Convention). L’unico membro dei Dog That Bit People che in seguito darà notizie di sé, è il batterista Bob Lamb che alla metà degli anni settanta ritroveremo a suonare rock‘n’roll nella Steve Gibbons Band e più tardi in veste di produttore degli UB40. Nel 1994 l’album ha beneficiato di una curatissima ristampa su CD da parte della Shoestring Records - con l’aggiunta della b-side “Merry go round” - purtroppo oramai di difficile reperibilità.

Mauro Ranchicchio

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