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POCKET ORCHESTRA Knēbnagäuje Mio Records 2005 USA
 

A soli 5 anni dalla pubblicazione del presente CD mi trovo costretta ad includere la sua recensione fra le reliquie. La sua stampa infatti è stata curata da una etichetta israeliana ormai defunta e ora come ora non è proprio facilissimo reperirla sul mercato, se non con un pizzico di fortuna, fra gli scaffali virtuali dell’usato. Diciamo subito che un minimo di impegno nella ricerca di questo CD verrà sicuramente ripagato da un ascolto interessante e stimolante, soprattutto per quelli di voi che sono legati a filo doppio con il filone RIO avanguardistico. In realtà questa band non è mai arrivata a pubblicare un vero e proprio album, per la precoce scomparsa del leader, il chitarrista Tim Parr, che portò allo scioglimento del gruppo.
Questo CD contiene in pratica due set di pezzi su nastro, il primo risalente al 1978-1979 e registrato all’Evergreen State College di Olympia (Washington) grazie all’aiuto di Bill Johnston (violoncello) che era manager della radio locale e che poteva garantire l’accesso agli studi, e l’altro contenente registrazioni effettuate nel 1983, grazie ad uno studio mobile collocato su un furgone. “Knēbnagäuje” era il primo nome della band col quale viene indicato anche il primo dei due nastri. Il gruppo nacque nel 1975 attorno alla figura di Tim Parr il quale amava organizzare delle sedute di improvvisazione per poi registrarle con il suo inseparabile 4 piste ed utilizzarle come base di studio per lo sviluppo delle nuove canzoni. Il cambio di nome avviene negli anni Ottanta, all’epoca della realizzazione del secondo nastro, in un periodo in cui la band effettuava molti concerti in giro per gli States, in compagnia degli amici Cartoon, uno dei gruppi di punta della neonata etichetta Cuneiform.
I primi 4 pezzi del CD provengono dai nastri del 1983 (“The Pocket Orchestra Tape”) e coprono la durata complessiva di 42 minuti. Ci mostrano un gruppo artisticamente maturo e con un proprio carattere ben delineato. La qualità di registrazione è buona ed il materiale è tutt’altro che di scarto. Le composizioni sono decisamente intricate ma allo stesso tempo vengono esaltati elementi orchestrali, sinfonici ed interessanti escursioni verso i territori del jazz rock. In effetti Tim Parr aveva un programma radiofonico settimanale alla stazione FM del college in cui approfondiva la scena RIO e tutta la sua attenzione verso questo fenomeno musicale si può percepire perfettamente nelle sue composizioni, incentrate sì sull’improvvisazione ma che al tempo stesso rivelano una profonda cultura in materia.
Una specialità in cui si contraddistinguevano i Pocket Orchestra era quella di suonare in maniera incredibilmente rapida pezzi intricati e complessi (tecnica che Parr chiama cobatone), capacità questa che emerge attraverso accelerazioni repentine che avvengono in maniera naturale e senza sforzi apparenti ma che ad un ascolto più profondo evidenziano un’abilità strumentale indiscussa che riesce a conservare una certa enfasi e pulizia esecutiva, nonostante l’alta velocità raggiunta. Questa attitudine la percepiamo subito con il pezzo di apertura, “Imam Bialdi”, nome di un piatto tradizionale armeno, in cui, in poco più di sei minuti, avviene davvero di tutto. Si passa con disinvoltura dal Jazz al Klezmer con repentini cambi di umore, fra suoni stridenti e aperture sinfoniche impreviste e le consuete ed improvvise fughe strumentali. Il pezzo successivo “R.V.”, che è l’abbreviazione di “recreational vehicles”, composta dal tastierista Craig Bork, si apre con un vero e proprio tributo ai Samla Mammas Manna che vengono inequivocabilmente imitati anche nella scelta del pannello sonoro, per poi terminare con un mirabolante esempio di cobatone.
L’apertura di “Regiments” è oscura e misteriosa, con morbidi richiami a qualcosa di Canterburyano, grazie soprattutto al clarinetto sensuale di Joe Halajian, ma come al solito gli sviluppi sono imprevedibili e ci portano in questo caso in territori che ricordano Univers Zero, U Totem e Henry Cow. In particolare l’idea di Parr per questa canzone era quella di comporre un motivetto da fischiettare per i soldati di ritorno dalla terza guerra mondiale… e speriamo che non ce ne sia mai bisogno! L’ultimo pezzo, “Letters”, ha invece degli elementi grotteschi e giocosi impressi in uno stile a dir poco capriccioso e guizzante con riferimenti dichiarati a Picchio Dal Pozzo e Albert Marcoeur.
Gli ultimi 4 pezzi appartengono, come detto, alla prima fase di vita della band e ci mostrano uno stile che è prodromico di quello compiuto che si può apprezzare nelle registrazioni successive. I pezzi sono meno corali e forse più eclettici ed anarchici ma evidenziano una genialità fuori discussione in questa fase che è prevalentemente di studio e di ricerca. I suoni sono più essenziali ed asciutti e a volte anche minimalisti pur non trasformandosi mai in qualcosa di eccessivamente ostico e scostante. La verve umoristica del gruppo emerge tutta nel brano “Grandma Coming Down the Hall with a Hatchet”, delirante a partire dal titolo, in cui si mescolano siparietti scherzosi a bizzarrie sonore varie e inconsuete e ritrovate fragranze melodiche con tanto di echi Crimsoniani. La traccia di chiusura, “Bagon”, è la più lunga dell’intero CD (oltre 16 minuti) ed è anche la più destrutturata e schizofrenica anche se, come di consuetudine, non mancano mai le sorprese che balzano fuori dietro ogni spigolo sonoro.
Non oso pensare a cosa sarebbe potuta diventare la band se avesse avuto la fortuna di continuare il proprio percorso artistico. Purtroppo bisogna accontentarsi di questo materiale, comunque valido ed imprescindibile per ogni cultore del filone RIO avanguardistico. Finchè circola ancora qualche copia di questo album, lo ribadisco, il consiglio è quello di prenderlo, pagandolo forse anche un pochino più della media. Ne vale la pena.

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Jessica Attene

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