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CIRCUS Riccardo Maranghi
 

Basilea è una città elvetica situata nel punto d’incrocio tra i confini di Svizzera, Germania e Francia. E’ qui che nel 1972 inizia l’avventura di quattro giovani musicisti (Fritz Hauser, batteria; Marco Cerletti, basso; Andreas Grieder, sax e flauto; Roland Frei, voce chitarra e sax) che in quell’anno si incontrano per dar vita a un progetto che li accompagnerà per circa un decennio: il progetto Circus.
Il primo periodo di attività del gruppo è dedicato alla composizione di un proprio repertorio di brani (molti dei quali, tra cui la suite “Winter ghosts”, non hanno mai visto la luce su vinile) e ad un’intensa attività concertistica intrapresa allo scopo di creare un seguito di appassionati (alla fine della loro carriera i Circuì avranno totalizzato più di 400 concerti tra Germania e Svizzera).
Occorre attendere fino al 1976 affinché venga realizzato il primo vero LP della band, un LP per il quale parlare di progressive appare indubbiamente prematuro. La musica, una strana miscela di jazz, blues e folk, può ricordare a tratti qualcosa dei primi Jethro Tull (“Stormplinter”) o, più labilmente, qualcosa della scuola di Canterbury, mentre affiorano inoltre qua e là chitarre dai connotati frippiani. Il risultato è comunque abbastanza personale e non offre spunti di paragone troppo diretti. Non ci sono tastiere, sostituite da un flauto quasi onnipresente, e la cosa indubbiamente si avverte: le atmosfere sono spesso eteree, con gli strumenti suonati al minimo volume ed il cantato quasi sussurrato. Difficile è anche parlare di melodie, che ora ci sono, ora si spezzano in alti e bassi talvolta difficilmente seguibili. In definitiva un disco per il quale non esistono mezze misure: o annoia mortalmente o affascina indicibilmente.
Nel maggio del ’77 i Circus tornano nuovamente in studio per registrare “Movin’ on”, album per il quale la definizione di capolavoro non è probabilmente fuori luogo. I Circus iniettano una buona dose di potenza nella loro musica e ci regalano una collezione di pezzi assolutamente memorabile: “The bandsman”, “Laughter lane”, “Lovelesstime” sono solo le splendide avanguardie di un disco che vede il suo apice creativo nella suite “Movin’ on” (22’35”), dagli strumentali ora dinamici ora soffusi e dalle magnifiche parti cantate.
Adesso sì che si può parlare di progressive! Le tastiere sono ancora assenti ma questa volta non se ne sente davvero la mancanza, grazie soprattutto a chitarre e flauti più potenti ed al maggiore apporto del sax che assume spesso sonorità alla Van Der Graaf. I maggiori riferimenti sono rintracciabili, oltre che nella band di Peter Hammill, nei King Crimson (le chitarre) e nei Gentle Giant, ma l’indubbia abilità strumentale dei Circus tiene il disco lontano mille miglia dalla sterile scopiazzatura. L’aspetto jazz-rock affiora ancora in più di un’occasione, ma questa ormai sembra essere divenuta una caratteristica ricorrente del Circus-sound.
Arriviamo così al 1978. Questo è un anno che segna una tappa molto importante nella storia della band: l’evento principale è senz’altro rappresentato dalla ambiziosa tournée che il gruppo intraprende con la Circus All Star Band, una formazione composta da ben 13 elementi appartenenti al circuito rock/folk svizzero-tedesco. La testimonianza di questa esperienza è raccolta nell’album “C.A.S.B. live”, apparso lo stesso anno. Si sente indubbiamente che questi non sono i soliti Circus; su un primo lato a tratti abbastanza inutile (ben 5 minuti sono occupati dalla presentazione dei musicisti!) si alternano spunti jazzati (“Eight miles on a highway”), momenti quasi country (“Driving wheel”) ed aperture sinfoniche (“Andante maestoso / Rondo furioso”). Il paragone più sensato è probabilmente quello coi Traffic di Steve Winwood. Il secondo lato, occupato interamente dal pezzo “Augusta Rauricorum”, è senz’altro più tipico del gruppo (soprattutto nella sua parte finale), rimanendo comunque piuttosto distante dalle vette di “Movin’ on”. Un disco gradevole ma non essenziale.
All’indomani dell’esperienza con la All Star Band, una nuova figura si inserisce nell’orbita del complesso: Stephen Amman, tastierista e compositore, inizia infatti una intensa collaborazione con Fritz Hauser, che lo porterà a diventare membro stabile della band nel momento in cui Andreas Grieder deciderà di abbandonare. Ciò accade nel 1979 ed i Circuì conoscono così un primo momento di sbandamento.
L’anno successivo vede l’uscita dell’ultima testimonianza vinilica della band. “Fearless, tearless and evenless”, questo il titolo dell’LP, riesce a regalarci ancora stralci di ottima musica: al notevole impatto di composizioni come “The night step”. “Leave or love it”, “Berlin”, spesso ammiccanti al blues, si contrappone il lungo strumentale “Manaslu”, dai connotati decisamente più innovativi. Qui i Circuì accennano discretamente alla new-age, muovendosi in una direzione ben diversa dal loro standard abituali, senza però raggiungere risultati eccessivamente esaltanti. Un disco che, se stilassimo una ideale classifica della produzione del gruppo, sarebbe da collocare immediatamente dopo “Movin’ on”.
Passano pochi mesi ed esce “Blue motion”, LP frutto della collaborazione fra Hauser ed Amman cui accennavo sopra. I due (assieme a Stephen Grieder, altro keyboard-man) producono un album di stampo inevitabilmente sinfonico che raggiunge risultati quasi insperati, visti i limiti che una formazione tastiere/batteria/tastiere comporta. Ciò soprattutto grazie alla indubbia sagacia tecnica dei musicisti e alla loro abilità nell’usare al meglio la strumentazione che si giova, tra l’altro, di un piano ottimamente dosato e di uno xilofono, suonato da Hauser.
Questo disco, pur non rientrando nella discografia del gruppo, rappresenta il confine ultimo dell’esperienza Circuì. Con il 1980 la band entra infatti in una crisi irreversibile e, nonostante gli sforzi di alcuni suoi componenti al fine di protrarne l’esistenza, questa riuscirà a malapena a raggiungere il 1982, anno in cui, per quanto mi risulta, i Circuì annunciarono il loro definitivo scioglimento.

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