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CRESSIDA Mauro Ranchicchio
 

La scena post-psichedelica inglese di inizio anni ‘70, che vide nascere i grandi gruppi capostipiti del progressive rock, brulicava letteralmente di decine di band meno fortunate che partirono dagli stessi presupposti artistici dei vari Genesis, Yes o King Crimson ma per vicissitudini varie si limitarono ad uno o due soli album.

L’industria discografica di quegli anni vedeva nascere etichette sussidiarie orientate alla produzione di questo genere musicale (la Harvest - divisione della EMI che si accaparrò i servigi dei Pink Floyd, la Virgin/Charisma - casa di Genesis e VdGG, la Decca/Deram che assoldò i Caravan, la Polydor/Vertigo, la Pye/Dawn e la RCA/Neon solo per citare le più note) così gruppi come Gracious!, Spring, Indian Summer, Raw Material, Beggar’s Opera tutti ebbero l’opportunità di candidarsi ad iniziatori di un filone di rock elaborato e rivelatore di influenze classicheggianti, sia pure ancora venato di blues o di pop psichedelico tipicamente sixties e debitore verso Moody Blues o Procol Harum.

Tra gli alfieri di quello che oggi viene definito proto-prog, un posto di spicco spetta certamente ai Cressida, band britannica a prevalenza scozzese autrice di due ottimi album usciti su etichetta Vertigo tra il 1970 e il 1971.
La band, formatasi nel 1968, prende il proprio il nome in prestito dalla letteratura shakespeariana, a sottolineare forse l’attitudine tipicamente inglese della loro arte e l’ispirazione neoclassica: la protagonista femminile del “Troilo e Cressida” è infatti una donna greca caduta prigioniera e resa schiava presso i troiani.
Nella sua prima incarnazione stabile, la band è composta da Angus Cullen, voce melodica e personale dal timbro privo di qualsiasi forzatura stilistica, John Heyworth, chitarrista mai invadente con una predilezione per lo strumento acustico, Peter Jennings al piano e all’organo Hammond (quest’ultimo spesso vero tessitore delle trame musicali) più qualche sporadica sottolineatura di mellotron e clavicembalo, Kevin McCarthy al basso e Iain Clark, batterista proveniente dai Mustard e che poco più tardi ritroveremo nei compagni di scuderia Uriah Heep.

La prima registrazione dei Cressida avviene nel 1968 e produce un 45 giri acetato promozionale contenente “Lights in my mind” sul lato A, in una versione differente da quella che sarà pubblicata in seguito nell’album d’esordio e sul lato B, oltre a “Depression”, il brano “Sad Eyed Fairy”, rimasto altrimenti inedito.

Ottenuto un contratto con la Vertigo, i Cressida registrano il primo album (Vertigo VO 7), eponimo, in presa diretta ai Wessex Studios e ne affidano il design della copertina allo studio Teenburger.
E’ un disco composto di brani piuttosto brevi, spesso in formato canzone, ma allo stesso tempo intrisi di un certo alone di malinconia quasi misteriosa, infusa dal cantato sereno ma leggermente velato di nostalgia (il paragone con Justin Heyward dei Moodies è piuttosto adeguato ma non rende totalmente giustizia a Cullen) e dalle atmosfere un po’ fumose suggerite dall’Hammond.
Alcuni dei pezzi più riflessivi, come “One of a group”, “Depression” e soprattutto “Down down” (splendida ballata impreziosita da discreti interventi al mellotron) possono richiamare alcune sonorità rese popolari dai Floyd del periodo More e Ummagumma, soprattutto nell’accostamento tra chitarra acustica e assoli modali di organo (i titoli che mi vengono in mente sono “Cymbaline” e “Green is the colour”).
“Spring 69” è un gioiellino per voce e chitarra acustica che potrebbe essere uscito da un disco di Nick Drake, mentre “Home and where I long to be”, l’unico brano cantato dal chitarrista Heyworth, è un episodio che si fa notare per gli accenti vagamente folk-country.
“Lights in my mind” e “To play your little game” sono brani più upbeat con un discreto potenziale commerciale, giocati su rapidi giri di Hammond e refrain corali.
Infine, i brani di fattura più complessa, come “Cressida” e la conclusiva “Tomorrow is a whole new day”, non a caso il pezzo più lungo del disco con un finale corale quasi elegiaco e finalmente l’elettrica protagonista, anticipano quello che sarà lo stile sviluppato nel secondo album.
In definitiva, un album dalle melodie memorabili e spesso struggenti (la maggioranza dei brani è firmata da Heyworth e Cullen), che vede i suoi punti di forza nella versatilità dell’organo, capace di passare da scorribande caratterizzate da un suono “sporco” a sprazzi di lirismo assoluto evocati da tonalità quasi liturgiche e nella voce solista a suo agio sia nello stile vagamente da storyteller inglese (“The only earthman in town”) che nei frangenti più introspettivi.
Nonostante la qualità artistica elevata, l’album passa piuttosto inosservato e non arriva a figurare nelle classifiche inglesi.

Ad un anno di distanza dall’esordio esce “Asylum” (Vertigo 6360 025), corredato da una memorabile copertina (realizzata da Marcus Keef) in perfetto stile metafisico Vertigo/Neon (se conoscete le cover dei contemporanei Indian Summer, Affinity, Czar, Tonton Macoute, Warhorse, Still Life sapete di cosa parlo!).
L’album è registrato agli I.B.C. Studios di Londra ed è prodotto da Ossie Byrne, già noto nell’ambiente per il lavoro svolto con Bee Gees ed Eclection, ed anche per questo può stupire la minore predominanza delle parti vocali ed il focus spostato sugli intrecci strumentali.
La formazione è in parte rinnovata: Heyworth abbandona la nave per problemi familiari ed arriva il nuovo chitarrista John Culley, anche lui legato ad un suono molto anni sessanta (d’altronde siamo solo nel 1971!), ma soprattutto un’orchestra (diretta da Graeme Hall) ad evidenziare la natura sinfonica delle composizioni, stavolta sviluppate in modo molto più maturo, pur mantenendo il sapore tipico ed “invernale” degli esordi.
Due ospiti completano la lineup: il flautista di origine giamaicana Harold McNair, collaboratore di Donovan, Ginger Baker e John Martyn, tragicamente scomparso poco più tardi e Paul Martin Layton dei New Seekers (gruppo pop vocale reso famoso dallo spot della Coca Cola con il celebre tormentone “I'd like to teach the world to sing”) alla chitarra acustica.
L’album inizia esattamente dove si era concluso il precedente, con la breve title track, ma già dal secondo brano “Munich”, firmato dall’organista Jennings e strutturato in forma di mini-suite, i progressi sono evidenti: alle tipiche ed ispirate melodie vocali di Cullen si contrappongono pause ad effetto e flash strumentali in cui si ergono a protagonisti la chitarra elettrica, l’organo o i fiati. La band ormai non ha più tributi da pagare ai Moody Blues, il passaggio dai gioiosi sixties ai più magniloquenti seventies è compiuto.
Da approfondire le liriche: i sottotitoli delle due sezioni (“Munich 1938: Appeasement was the cry” e “Munich 1970: Mine to do or die”) suggeriscono riferimenti alla conferenza di Monaco del ‘38 (in cui per scongiurare una nuova guerra mondiale si fecero concessioni alla Germania nazista) e paralleli con la situazione tedesca moderna.
La successiva “Goodbye Post Office Tower Goodbye” - dal testo alquanto bizzarro e conclusa dal fragore dell’esplosione dell’ufficio postale del titolo - mostra il lato umoristico della band, quasi a smentirci, ma è un episodio isolato che cede il passo all’urgenza di “Survivor”, in cui a far da contraltare ad una sezione di fiati quasi rhythm’n’blues troviamo qualche cromosoma hammilliano nell’interpretazione vocale.
La conclusione del lato A era affidata al sereno intermezzo pianistico di “Reprieved”, dal sapore un po’ jazz e un po’ vaudeville.
“Lisa” è una splendida canzone caratterizzata da interventi di flauto, intermezzi acustici per chitarra acustica e archi (non dissimile dallo stile dei Fruupp), un caldo Hammond e una romantica melodia vocale: sicuramente uno degli highlights dell’album, dal finale sinfonico e quasi epico.
Si torna alla normalità con “Summer weekend of a lifetime”, ballata folk inquinata da effetti psichedelici, ma i Cressida ci riservano le sorprese per l’ultimo, lungo (11’45) e mutevole brano “Let them come when they will” composto dal chitarrista transfuga Heyworth: il pezzo parte in sordina, sfociando in una sezione chitarristica quasi jazzata ed un assolo di organo in stile canterburiano per poi trasformarsi in un duello fiati/percussioni latineggiante: la ripresa del cantato di Cullen, mai così sentito e sofferto, ci trasporta in un emozionante falso finale di un’intensità sorprendente.

La band non sopravvisse agli scarsi riscontri ottenuti dal disco (si narra che “Asylum” non abbia superato le 800 copie vendute, da cui l’odierna quotazione del vinile che può raggiungere le 200 sterline), probabilmente dovuti anche alla rarità delle loro esibizioni live (ci si riferisce spesso ai Cressida come gruppo di “studio”) e nel 1972, alla scadenza del contratto con l’etichetta del vortice, alzò bandiera bianca.
L’unica testimonianza live di un certo rilievo consiste in un’esibizione tenutasi allo storico Marquee di Londra in cui i nostri si cimentarono anche in alcune cover, come “Fresh Garbage” degli Spirit, “Spanish Caravan” dei Doors e “Save the last dance for me” dei Drifters.
Alcuni componenti tenteranno in seguito la strada dell’hard rock: il chitarrista John Cullen suonerà con gli oscuri Black Widow nel loro album “III”, il batterista Clark parteciperà al celebre album “Look at Yourself” degli Uriah Heep, il bassista McCarthy passerà alle sei corde e sarà assoldato dalla band folk-rock Tranquillity, conoscendo un discreto ma effimero successo negli USA mentre gli altri scompariranno dalla scena musicale, incluso il talentuoso vocalist. Solo di recente, il batterista farà una fugace apparizione ad una convention dedicata agli Uriah Heep (HeepVention 2000) assieme all’ex compagno Ken Hensley.

Entrambi gli album hanno usufruito della ristampa su LP da parte della Vertigo nel 1987 (rispettivamente C904 e AC025) e su CD da parte della Repertoire all’inizio degli anni ’90 (REP 4299-WP e RR 4105-WP); una ristampa più recente della Gott Discs vede i due album coesistere su doppio CD (GOTTCD002).
Non potevano mancare le riedizioni nipponiche su CD (“Cressida”, etichetta Kitty Enterprises KTCM1165 e “Asylum”, etichette Nippon Phonogram PHCR-2004 e Universal UICY-9051).
Infine, per i più esigenti, esistono le riedizioni pubblicate dalla Akarma in formato LP (numeri di catalogo rispettivamente AK182LP e AK229LP, in vinile 180 grammi) e CD rimasterizzato con mini-copertina gatefold.
Una recente compilation a tiratura limitata dedicata all’underground tardo-psichedelico inglese, intitolata “Mynd The Gap, Vol. 1” (etichetta Justafixation, solo LP) esaurisce l’eredità registrata dei Cressida, includendo due brani registrati negli studi londinesi Regent Sound di Denmark Street, a Soho (utilizzati dagli Stones nella loro epoca d’oro) per il demo in seguito sottoposto alla Vertigo, con l’originale tastierista Lol Coker all’organo.

In definitiva, due album passati sotto silenzio all’epoca ma giustamente rivalutati dopo un ventennio e che mi sento di consigliare senza riserve, in particolar modo a chi apprezza le sonorità ancora un po’ acerbe ma di classe dei primissimi seventies ed i gruppi già menzionati, a cui aggiungerei – per affinità di sound - anche i Caravan degli esordi ed i Rare Bird.

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