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CATAPILLA Leo Di Rosa
 

Ci sono degli anni cui la storia della musica deve molto, anni senza i quali il rock non sarebbe stato lo stesso. Uno di questi anni è sicuramente il 1971: i Jethro Tull di "Aqualung", i Genesis di "Nursery cryme", i Van Der Graaf di "Pawn hearts"... tra questi e molti altri, il primo album omonimo dei CATAPILLA, band di non grande fama, ma con un consistente seguito di culto, costituitosi nel Natale dell'anno prima. La line-up originaria (la pur breve esistenza del gruppo è contrassegnata da sensibili cambi di formazione che però non ne pregiudicheranno la sintonia compositiva ed esecutiva), di stanza nella west-side londinese, era composta da Jo Meek alla voce, Malcolm Frith alla batteria, Dave Taylor al basso, Graham Wilson alla chitarra, più una nutrita coorte di fiati, con Hugh Eaglestone e Robert Calvert il mitico...) al sax tenore e Thierry Rheinhart al flauto, clarinetto ed ancora sax, sia tenore che alto.
Autori di una multiforme miscela ricca di umori jazz e sperimentali cavalcate strumentali, voraci fruitori di un'ampia varietà di stili e spericolati maestri di ardite contaminazioni sonore, quasi canterburiani per la sistematica tensione a forzare e superare gli angusti confini degli stilemi rock, riuscirono ad imporsi all'attenzione dell'Orange Music, una quotata management company dell'epoca, che diede loro la ghiotta opportunità di esibirsi di fronte ad un'interessata audience di addetti ai lavori ed operatori discografici. Patrick Meehan, già manager dei Black Sabbath, ne fu immediatamente conquistato e si offrì di produrre il loro album di debutto; correva l'anno 1971. Appunto.
Poco prima di entrare in studio per l'inizio delle registrazioni, Jo Meek fu sostituita da sua sorella Anna, una delle più belle voci del regno, con nulla da invidiare alle più blasonate Annie Haslam o Sonja Kristina (Jo presterà poco dopo la voce ai misconosciuti quanto inestimabili Julian's Treatment per il loro 2° LP "Waiters on the dance", epitaffio della band e, per la verità, accreditato al solo Julian Jay Savarin, mente poliedrica e braccio, imprescindibile allo Hammond, dell'intero progetto musicale, riconvertitosi poi a scrittore di fantascienza di discreto successo). Il loro primo lavoro discografico, intitolato appunto "Catapilla" (la copertina, apribile nella prima stampa inglese, rappresenta una mela), lascia già stupefatti ed ammirati per l'affiatamento e la tecnica individuale dei musicisti; il sound è innegabilmente progressivo nel suo essere multi-genere e multi-stile, con un parco strumenti decisamente ricco per gli standard dell'epoca, lunghe digressioni con magistrali intrecci chitarre-fiati ("Naked death" ed "Embryonic fusion", rispettivamente primo ed ultimo pezzo, durano nell'ordine quasi 16 e più di 24 minuti, negli altri due brani la tenace intelaiatura della forma canzone ingabbia il magmatico imperversare degli strumenti) si alternano ai grintosi stacchi vocali di Anna Meek, insinuante ed ambigua,
sensuale e aggressiva.
La trafila live, che ha portato i CATAPILLA a bruciare le tappe in numerosi club dell'effervescente scena londinese, trova coronamento in una grande maturità, pre-parazione tecnica, apertura al nuovo, ansia di attingere senza preconcetti allo scibile musicale, foga e rigetto di ogni compromesso commerciale: questi gli ingredienti di una ricetta vincente. L'approccio progressive con contaminazioni colte ed influenze jazz (soprattutto nell'attitudine ad improvvisare dilatando la durata dei brani nel segno di un composito sviluppo di ogni tema musicale) richiama alla memoria altre leggendarie one-album-band come i Fusion Orchestra di "Skeleton in armour", i pionieristici Affinity e gli intricati e jazzati, quanto a volte stucchevolmente seriosi Ben, nonché i seminali Cressida (soprattutto nel loro secondo LP "Asylum" dove, sebbene privi di fiati, l'esuberanza strumentale dei musicisti ricorda la fluviale creatività dei CATAPILLA) e, perché no, i Web di "I spider", non fosse altro che per la loro vocazione fiatistica idealmente ereditata anche dai loro degni successori Samurai.
Dopo un tour assieme a Graham Bond e Roy Harper successivo al loro album di debutto organizzato dalla Vertigo, etichetta di entrambi i lavori discografici dei nostri e fucina inesauribile (come la Neon della RCA e la Harvest della EMI per fare solo due nomi) di talentuosi creatori di suoni nuovi (Patto, Clear Blue Sky ed i Gravy Train di "Ballad of a peaceful ma" tra i tanti), con un organico profondamente rivoluzionato (Eaglestone, Frith, Rheinhart e Taylor lasciano e sono sostituiti da Bryan Hanson alla batteria, Ralph Rawlinson alle tastiere e Carl Wassard al basso), i CATAPILLA entrano nuovamente in studio per registrare la loro seconda opera e canto del cigno. E' il 1972: il risultato, intitolato "Changes" (questa volta sulla copertina campeggia un bruco, ideale e ironico sequel della mela del primo album), ha, ancora una volta, del miracoloso.
La verve strumentale , se possibile, è addirittura aumentata, la materia sonora lievita, docile e in continua trasformazione - evoluzione, sotto le sapienti dita dei protagonisti. L'album si articola in quattro pezzi, segnatamente: "Reflections", "Charing cross", "Thank Christ for George" e "It could only happen to me"; la loro scansione, tuttavia, non impedisce che si abbia la insopprimibile sensazione di ascoltare il dipanarsi di una lunga suite magnificamente eseguita e contrappuntata - teleguidata dalla voce di Anna che, stemperate alcune asprezze dell'esordio, è diventata puro vocalizzo, strumento tra gli strumenti.
L'inesistente promozione, il cattivo management, gli scarsi riscontri commerciali, portano la band a sciogliersi poco dopo, destino non infrequente a quel tempo, con i soli Robert Calvert e Dave Taylor coinvolti in successivi progetti musicali, il primo in sala di registrazione al fianco di John Stevens, il secondo con i Liar.
Dei CATAPILLA rimangono il nome, usato da Eaglestone per due negozi di dischi di sua proprietà e due album senza tempo. La loro quotazione in Lire italiane ha raggiunto livelli ragguardevoli; entrando nello specifico: il primo omonimo, prima stampa inglese, copertina apribile, si aggira sulle 150.000; il secondo "Changes", anch'esso prima stampa inglese con un'originalissima gimmix
cover, supera ormai la soglia delle 400.000.
Se mai il rock conquisterà unanimemente dignità di arte, un contributo piccolo ma significativo verrà anche da questa indimenticabile band.

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