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JOBSON, EDDIE David Guidoni
 

Perché una retrospettiva su un singolo musicista? Perché non un bell'articolo su di un gruppo, o su un artista, più famoso? Semplice: perché Jobson, sia come autore che come strumentista è stato protagonista di alcune delle più belle ed importanti pagine del rock. Virtuoso pianista e violinista, direttore d'orchestra mancato, divoratore di dischi di musica classica, ricevette in regalo il primo violino a nove anni mentre era già un piccolo genio col pianoforte.
Gli anni 70 erano un continuo fermento di gruppi e fu naturale che un gruppo allora famoso come i CURVED AIR, bisognosi di un tastierista, si accorgessero di lui. E' il 1973 ed esce "Air cut", quarto lavoro della band; "Metamorphosis", vero biglietto da visita firmato Jobson, mette già in mostra la vena compositiva del geniaccio con un lavoro di pianoforte notevole. Il resto del disco viene amministrato con Mellotron e piano elettrico. Frank Zappa, grande talento e grosso scopritore di talenti, non indugia molto a portare il giovane tastierista alla propria corte e così, con "Studio Tan", ma soprattutto col doppio "Live in New York", Jobson può dare spago alle proprie velleità musicali (non ancora compositive, però). Il brano, sul disco live, dal titolo molto eloquente "I promise not to come in your mouth", ne è la riprova.
Se escludiamo dal punto di vista qualitativo la partecipazione al disco dei ROXY MUSIC "Siren", per Jobson questo è un grande periodo, culminato con la formazione degli UK, destinati a fare storia (e scuola). Oltre al già citato Jobson, al gruppo prenderanno parte Bill Bruford, reduce dallo scioglimento dei KING CRIMSON, Allan Holdsworth (e qui ogni commento è inutile) ed il plurititolato John Wetton. Il disco omonimo d'esordio è uno dei massimi capolavori di sempre, con Jobson a farla da padrone (Holdsworth è abbastanza in disparte), così scorrono via brani come "Presto vivace", vero concentrato di tecnica, "Alaska", introduzione scritta interamente da Jobson, "Nevermore", col suo finale da infarto. Il resto del disco è tutto su livelli altissimi, con brani dalla complessità notevole, zeppi di tempi dispari, contrappunti, dissonanze, fughe strumentali, ecc..., terreno troppo fertile per uno come lui. Della serie 'batti il ferro finché è caldo', arriva subito il secondo lavoro "Danger money", che si rivela subito un altro pezzo da novanta: stravolta la formazione, rimangono solo Jobson e Wetton ed a loro si unisce un vecchio compagno di Eddie dei tempi di Zappa: Terry Bozzio.
Il gruppo, vista la somiglianza di formazione con gli EL&P, deve appoggiarsi interamente sul tastierista, per ciò che concerne la composizione e l'arrangiamento dei brani: poverino! Forse non aspettava altro a sentire almeno quello che combina su "Carrying no cross", con il suo crescendo iniziale, la sezione strumentale centrale da infarto, il finale che ricalca il tema iniziale (un vero componimento progressive!). Esso rappresenta coi suoi 12 minuti e passa il pezzo più bello del disco. Da ricordare anche "Danger money", con un intro difficilmente dimenticabile, ed anche la drammatica e delicata "Rendezvous 6:02". "Night after night", live del 1979 ed ultimo disco della band, non toglie né aggiunge nulla alla sua storia; qui sono contenuti i brani più significativi della sua breve carriera: una stupenda versione di "In the dead of night", le già citate "Alaska","Rendezvous 6:02" ed anche una versione tiratissima di "Caesar's palace blues". Nello stesso periodo, Eddie trova il tempo di partecipare all'album dell'artista americano Jasun Martz.
Un paio d'anni a spasso ed ecco il nostro eroe approdare ai JETHRO TULL, orfani di David Palmer. Il risultato di questa combinazione è l'album "A", lavoro leggermente inferiore ai precedenti ma non per questo privo d'interesse: "Black sunday" ed anche "Crossfire" sono due buoni brani; soprattutto il primo mette in risalto il lavoro al piano ed al synth di Jobson. Decisamente più interessante è il video tratto dal tour di "A" dal titolo "Slipstreams"; oltre alla già citata "Black sunday", i J. TULL esibiscono il loro miglior repertorio con estratti sensazionali da "Songs from the wood", "Aqualung" ecc. Questo video mette chiaramente in risalto le doti di Jobson il quale passa disinvoltamente dalle tastiere al violino, dalla voce al mandolino elettrico (su "Skating away").
Visto il successo meritatissimo riscosso in questi ultimi anni, i tempi sembrano maturi per un disco solista, cosa che avviene nel 1983 con "Zinc". Già la copertina molto geometrica, ermetica e fredda, con un monolito Kubrickiano al centro, dà un'idea della musica contenuta: alcune reminiscenze del periodo UK riaffiorano con brani come "Resident", "Who my friends", con un incedere stupendo in 7/8 ed un assolo di violino nella parte centrale. Ci sono sprazzi strumentali molto incisivi come "Nostalgia" ed anche qualche ammiccamento ad atmosfere più commerciali con "Turn it over" e "Green face". Il disco deve essere passato inosservato sicuramente, poiché Jobson scompare per due anni, per tornare nel 1985 con "Theme of secrets", dove le sue intenzioni sono totalmente differenti: questo lavoro, uscito per la Private Music (l'etichetta di Peter Baumann), è a tutti gli effetti un disco solista: Eddie Jobson ed un computer musicale Synclavier creano 45 minuti di autentica atmosfera, ove la tecnologia è messa al servizio della composizione; la struggente "Inner secrets", con un piano che traccia una linea stupenda, lascia spazio a "Spheres of influences". vorticoso viaggio nel cosmo.
La cadenzata "The sojourn" anticipa il capolavoro del primo lato: "Ice festival", una stupenda colonna sonora per una scalata immaginaria, ad occhi chiusi, in cima ad una vetta altissima circondata dalla neve. Il secondo lato va ricordato principalmente per due brani: "Memories of Vienna", dal riff ipnotico, e soprattutto per "Lake-mist", stupenda ballata con un ritmo molto vicino ad alcune cose di Peter Gabriel. E' questo il disco che più si allontana dallo standard compositivo dello strumentista, ma questo non lo rende meno interessante, ed è questo purtroppo il periodo meno prolifico di Jobson che interrompe la sua carriera (almeno fino ai giorni nostri) con l'apparizione sulla compilation della P. Music "Piano one". Degli otto brani di solo pianoforte firmati da Sakamoto, Joachim Kuhn ed Eric Watson, i tre di Jobson (senza togliere nulla agli altri) brillano di luce propria: "The dark room", "Ballooning over Texas" e "Disturbance in Vienna" chiudono in maniera malinconica un ventennale fatto di grosse soddisfazioni per Eddie, il quale, non avendo mai raggiunto la notorietà di alcuni suoi colleghi come Banks, Emerson e Wakeman, è stato sicuramente alla loro altezza (se non di più!) lasciando tracce indelebili di alcune delle più belle composizioni che la musica moderna ricordi.

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