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Recensioni

GÖSTA BERLINGS SAGA-Forever Now -Pelagic Records -2025 -SVE -Sergio Lombardi
GÖSTA BERLINGS SAGA Forever Now Pelagic Records 2025 SVE

Bentornati in una delle saghe musicale più originali e coraggiose del prog, in cui i protagonisti comunicano solo attraverso i loro strumenti e le atmosfere cangianti che creano. Nel settimo album dei Gösta Berlings Saga non ci sono compromessi: qui tutto è possibile, troverete improbabili accostamenti dall’effetto sorprendente, come in una galleria d’arte moderna o sulla tavola di uno chef creativo, ascolterete 43 minuti e 31 secondi di brani solo strumentali, ma molto più espressivi di mille voci umane.
La loro musica è un collage che esprime libertà artistica, una continua konstruktion di elementi per stupire, superare gli schemi e costruire la musica del futuro.
Dopo venti anni dal loro primo concerto, dopo sette album per cinque diverse label, e cinque anni per produrlo, i GBS pubblicano “Forever Now” per la Pelagic Records, tornando alle atmosfere dei loro primi lavori, ma solo come punto di partenza, per superare a mio avviso ogni album precedente in varietà, intensità e imprevedibilità. Il tema emozionale e ideale del disco è voler mantenere per sempre con sé le persone amate, tema della perdita che si avverte forte, e che ricorre nel rock almeno da cinquant’anni, quando gli amici di Syd, riuniti negli Abbey Road Studios, gli dedicarono un tributo indimenticabile.
Il vero artista progressive non guarda mai indietro, e questo disco supera del tutto il periodo Inside out, con un sound oggi molto più ricco e composizioni più articolate ed eterogenee. Ne è riprova anche la scaletta del release party a Stoccolma, che oltre a proporre brani dal nuovo album, rivaluta brani da “Sersophane”, tralasciando del tutto la produzione dei loro primi dieci anni, ma lasciando poco spazio anche a quella degli anni 2018-2020.
Fra i protagonisti di quest’opera, un campionatore primitivo a nastri nato nel 1963: il Mellotron la fa da padrone in questo disco, ma è utilizzato spesso in modo avanguardistico, diverso rispetto al prog classico, abbinato con atmosfere non sinfoniche. David Lundberg abbandona il suo amatissimo Fender Rhodes Piano che aveva caratterizzato il sound della band svedese, e spinge sulla sperimentazione per lasciare spazio a synth più cattivi e oscuri (un mix di sintetizzatori software e hardware, Serum, Minifreak, Prophet, Mellotron, CS80, Solina, Jupiter e altri), ma sempre con un gran gusto per la melodia e gli strati sonori.
Un'altra novità nel linguaggio della band è l’alternanza fra composizioni più brevi e più lunghe: come in una galleria di quadri astratti, miniature si alternano a grandi murales. Anche la copertina del disco esprime la passione del gruppo per la contaminazione, con un montaggio optical-naturalistico con archetipi quasi grotteschi.
In “Full Release” già dalle prime note si comprende che questo album nasce dal caos organizzato. La tensione sale e diventa incontenibile, la combinazione di Alexander Skepp e Jesper Skarin sui due canali è esplosiva, con il loro doppio drumming risvegliano tutte le allodole di Svezia.
Non è necessario guardare il video di “Through the Arches” per vedere e sentire il treno: il basso pulsante di Gabriel Tapper e un pitch insolitamente “veloce” per i GBS. Grande energia attraversa questo brano, con passaggi più sognanti e un finale colorato. Questo primo singolo, apparentemente il pezzo più easy del disco, fa invece scoprire nuovi dettagli e suoni ad ogni ascolto.
”Arrangements” è un duetto soffuso fra due Mellotron (voce flauto), che apre alla titletrack, il brano più complesso e gratificante del disco che, attraverso diverse sezioni, ci trasporta in un viaggio nel prog più oscuro, con momenti più sinfonici, ariosi ma anche claustrofobici e un finale dall’intensità e malinconia commoventi. Consigliatissimo come trailer non solo del disco ma della natura potente e mutevole dei Gösta Berlings Saga.
”The Sprig and the Birch” è un delicato passaggio di piano, che prelude a “Fragment II”, sicuramente il pezzo più debole dell’album. Collegato alla nuova release anche “Fragment I”, una inusuale jam con ospiti illustri come Reine Fiske (Träden, Dungen) e Gustav Nygren (Kungens Män, Anekdoten) pubblicata qualche mese prima.
Un altro “millefoglie sonoro” è “Ascension”, che combina elettronica con tastiere “fredde” a momenti in cui finalmente la chitarra di Rasmus Booberg si esprime più liberamente rispetto a interventi più “disciplinati” nel resto del disco.
”Dog Years” potrebbe stare tranquillamente in “Detta har hänt” o in “Glue Works”, con il suo crescendo che parte da un accenno di riff, costruendo strutture musicali complesse più vicine al sound classico dei GBS, grandi architetti sonori anche in questo brano.
”Make of Your Heart a Stone” è un timido arpeggio di chitarra che si sviluppa in combinazione con uno dei rari interventi di piano elettrico del disco. Serve a raffreddare il mood, entrare nella foresta e a lanciare il brano finale dell’opera, molto ricco e misterioso.
Aiutiamoci col video per comprendere meglio il significato di “Ceremonial”. Uno strano rituale si svolge nella foresta nordica, con i membri dei GBS coperti da mantelli intorno ad un fuoco. Come nel video di “Through the Arches”, in cui il treno parte dalla città per tornare nella natura e accedere a una dimensione magica, il cerimoniale esprime il desiderio degli artisti di separarsi del tutto dalla realtà urbana quotidiana, per regredire ad uno stato autentico e creativo. A pensarci, questo è un po’ il manifesto di tutto il prog scandinavo dagli anni ’90 che, abbandonati i synth digitali, le maschere, gli eccessi canori e gli scimmiottamenti di certo new prog del decennio precedente (elementi purtroppo non morti del tutto nemmeno oggi), sono riusciti a tornare allo spirito originale del prog, rinnovandolo e rilanciandolo.
Non perdete questo album, veramente unico e diverso dalla maggior parte di quello che si può ascoltare nel panorama prog. Ma dedicategli la giusta attenzione, per gustarne appieno tutti gli ingredienti e le sfumature.
Curiosità: come altre band scandinave, i Gösta Berlings Saga hanno fatto molto “field recording” per “Forever Now”, campionando suoni reali per aggiungere texture. Suoni a volte meno evidenti perché stratificati con altri suoni, ma alcuni più evidenti, come il suono dell'esplosione all'inizio di “Through the Arches”, in realtà il suono della portiera della vecchia Volvo 940 di Alex, con un riverbero enorme e naturale.

Sergio Lombardi

THE GUILDMASTER-Gathering of souls -Seacrest Oy -2025 - -Valentino Butti
THE GUILDMASTER Gathering of souls Seacrest Oy 2025

Terzo album in cinque anni per il progetto “The Guildmaster” che pare avere stabilizzato la line up con Rafael Pacha (che si destreggia tra chitarre, bouzouki, violino, mandolino, viola…), Alessandro Di Benedetti (tastiere e voce), Marco Bernard (basso) e Kimmo Pörsti (batteria, percussioni e tastiere aggiuntive). “Gathering of souls” è il titolo scelto, sempre caratterizzato dallo splendido artwork di Ed Unitsky. Sin dall’esordio (“The knight and the ghost” 2020) il sound del gruppo era ben definito: un melting pot sonoro che, partendo dal folk, sfocia nel prog sinfonico e viceversa, con i numerosi strumenti acustici che entravano in competizione con quelli della tradizione rock con risultati più che convincenti. Il nuovo lavoro non smentisce questo approccio e propone otto brani (tre dei quali della durata superiore ai dieci minuti) per oltre un’ora di durata complessiva. Il primo pezzo è lo strumentale “The crusade of Earl Birger” (eroe svedese del XIII secolo) con musiche di Pörsti. Gli strumenti etnici ed acustici donano un’atmosfera senza tempo al brano ben coadiuvati dalla sezione ritmica e dalle delicate tastiere. Notevolissimo il folk-rock di “Where are you?” (musiche di Pacha) con ancora gli strumenti tradizionali protagonisti, dal bouzouki, al flauto dolce, dal mandolino al bodhran, che ci accompagnano direttamente nella verde Irlanda, tra la pioggia sottile, il vento e le brughiere. Il brano, arricchito dai vocalizzi di Paula Pörsti, non dimentica il back-ground rock dei quattro con fraseggi tra chitarra elettrica e tastiere, riportandoci verso atmosfere sinfoniche. Più breve, la seguente “Omnis saltat ad solem” una danza che suggella la bellezza del sole con un ritmo trascinante nella prima parte in cui Pacha (sue le musiche) ribadisce tutto il suo amore per la strumentazione etnica (lo hulusi- un aerofono originario della Cina- il cuatro -una sorta di chitarra sudamericana- il mandolino, la nyckelharpa- una sorta di ghironda, ma di origine svedese-). “Blood and oblivion” è il primo brano cantato, molto bene tra l’altro, da Yogi Lang (RPWL) con musiche e testi di Alessandro Di Benedetti. Si tratta di una composizione leggermente diversa dalle precedenti, avvicinandosi anche al jazz-rock, ma senza perdere pathos ed ispirazione, tutt’altro. La traccia successiva, “La prometido es deuda” (“A promise is a debt”) ritorna ad essere incentrata sugli strumenti di Pacha: cetra, dulcimer, viola da gamba, ma anche con un “riff assassino” di chitarra presto doppiato da un eccellente “solo” di Di Benedetti, protagonista pure al pianoforte. Ma non è finita qui… ”Mary the Jewess” si sposta verso un più canonico rock sinfonico. Alla voce c’è Nick Markham (suoi i testi, su musiche di Pacha) ed il mood complessivo è vagamente genesisiano. “Luonto puhuu” (“Nature speaks”) è un omaggio alla natura finlandese e… alla sua lingua così particolare. “Sea and sky”, chiude degnamente l’album: la voce di John Wilkinson (Ellesmere, Samurai of Prog, Mama -Genesis cover band-) ci porta in territori new prog con, in più, il delizioso flauto di Giovanni Mazzotti ed un guitar-solo di Tony Riverman degno di nota. Il gruppo, con questa terza release, si dimostra in ottima forma: formula collaudata e vincente, formazione affiatata, ospiti di rilievo, ispirazione sempre notevole. Cosa chiedere di più?

Valentino Butti

NUOVA ERA-20.000 leghe sotto i mari -AMS Records -2025 -ITA -Peppe Di Spirito
NUOVA ERA 20.000 leghe sotto i mari AMS Records 2025 ITA

Si potrebbe dire che questo album segna il definitivo ritorno alle origini per i Nuova Era. Il precedente lavoro “Return to the castle”, pur valido e interessante, appariva forse un po’ interlocutorio nel suo voler mettere troppa carne al fuoco. Con “20.000 leghe sotto i mari” il salto indietro nel tempo per la band toscana appare ora definitivo, grazie alla riproposizione di suoni, strutture e atmosfere dei dischi che tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio successivo avevano fatto gioire parecchi appassionati che auspicavano un recupero di quel prog sinfonico che da troppo era terribilmente bistrattato. Ma torniamo al nuovo parto dei Nuova Era e diciamo subito che i risultati sono ampiamente soddisfacenti e degni delle migliori opere del gruppo. Confermato il quartetto formato dal leader Walter Pini (tastiere), Alex Camaiti (voce e chitarre), Rudy Greco (basso) e Maurizio Marra (batteria e percussioni), il concept è stavolta basato sul capolavoro letterario di Jules Verne che dà il titolo all’album. La suite eponima, suddivisa in otto sezioni, si protrae per oltre trentasei minuti e nel cd è presente anche una bonus track strettamente legata alle tematiche esposte già dal titolo “Nautilus”, composta da Pini in gioventù, ma rimasta inedita prima di questa pubblicazione. Il ritorno al cantato in italiano dà una spinta in più per nuovi accostamenti stilistici ai grandi del prog tricolore dei seventies, così i riferimenti sono ancora una volta quelli del Banco, delle Orme, del Museo Rosenbach. Eppure chi ha vissuto in prima persona quel rinascimento, almeno nell’underground, del prog alla fine degli anni ’80, non faticherà a riconoscere in pieno il marchio dei Nuova Era. I tripudi tastieristici di Pini danno quel carattere maestoso che è sempre stata una delle peculiarità della band. Poi, al solito, enfasi strumentale, cambi di tempo, di atmosfera, echi classicheggianti, teatralità, melodie mediterranee, una chitarra incisiva che si ritaglia abilmente i suoi spazi, l’effetto sempre seducente del mellotron e chi più ne ha più ne metta. Strutture di rock sinfonico ampiamente consolidate, ma che Pini e compagni dimostrano ancora una volta di saper padroneggiare al meglio. Il sound in generale è comunque moderno e pulito, cosa che smorza un po’ l’indole vintage della musica e giusto in qualche frangente più aggressivo si sposta il tiro verso un hard rock quasi purpliano. I Nuova Era sono tornati in splendida forma e hanno sfornato un disco che merita di essere annoverato tra i loro migliori. Come sta dicendo qualcuno? Non è molto originale? È vero, ma in un’epoca in cui è davvero difficile inventare qualcosa di nuovo in quasi tutti gli ambiti musicali, ci si può “accontentare” (le virgolette sono d’obbligo…) di album che, anche se passatisti, all’ascolto risultano molto belli, ispirati e suonati egregiamente, no?

Peppe Di Spirito

THE SAMURAI OF PROG-Omnibus 4 The Bernard & Pörsti sessions -Seacrest Oy -2025 - -Valentino Butti
THE SAMURAI OF PROG Omnibus 4 The Bernard & Pörsti sessions Seacrest Oy 2025

Con “Omnibus 4 The Bernard & Pörsti sessions” i Samurai Of prog vanno a chiudere il breve arco temporale 2020/2021 quando con i solo loro cognomi pubblicarono ben tre album (oltre ad altri tre con il moniker principale…). Gli impegni del terzo “samurai”, Steve Unruh, non fermarono il bassista italiano ed il batterista finlandese che, assistiti dai soliti numerosi ospiti, pubblicarono dapprima “Gulliver” (2020), seguito da “La tierra” (sempre 2020) per concludere con “Robinson Crusoe” (2021). Questo boxset (i precedenti “The early years”, “The middle years” e “Omnibus 3” hanno visto la luce tra il 2018 ed il 2024) ripropone, dunque, gli album appena citati a cui vanno ad aggiungersi altre cinque composizioni inedite per circa quaranta minuti complessivi. Invitiamo, chi lo volesse, a leggere le recensioni dei singoli album presenti sul sito di “Arlequins”, mentre qui ci limiteremo ad analizzare le sole tracce bonus. Iniziamo da “Gulliver” con “Ordinary man”. Alla voce troviamo Michael Trew dei “Moon letters” (testi e musiche di Alessandro Di Benedetti). Si tratta di un brano delicato, dal lieve sentore “jazzy”, nelle fasi iniziali, con un ispirato assolo di chitarra di Tony Riveryman ed uno, davvero intrigante, del basso di Jan-Olof Strandberg. Il pezzo di Rafael Pacha, “Fuego” (presente in “La tierra”), è incentrato sulla splendida voce di Ariane Valdiviè e con un bell’intervento delle tastiere dello stesso autore, ma, nel complesso il brano scivola via senza grossi acuti. “Winter day”, la prima delle tre bonus di “Robinson Crusoe”, è una crepuscolare ballata prevalentemente acustica, impreziosita dal flauto di Giovanni Mazzotti e ben cantata da Daniel Fäldt. Segue lo strumentale (musiche di Mario De Siena) “Lost soul”, un pezzo frizzante con significativi camei di Steve Unruh al violino e di Risto Salmi al sax ben assecondati da una ritmica molto potente. La traccia conclusiva “Three castles on the highlands” (musiche di Mario Bianchi-ex Ezra Winston- e Massimo Sposaro) è quella che mi ha convinto maggiormente: un’atmosfera sognante, dal grande pathos, in cui, anche stavolta, il flauto (Daniela Rizzo, in questo caso) crea melodie davvero affascinanti. L’utilizzo da parte di Rafael Pacha di numerosi strumenti tradizionali quali dulcimer, salterio e bodhran aggiungono efficacia ad un pezzo davvero ben fatto. Detto del meraviglioso artwork ad opera, come sempre, di Ed Unitsky, questo box set potrebbe essere una buona occasione per conoscere la produzione più recente del duo italo-finnico ad un prezzo, tra l’altro, piuttosto vantaggioso; per chi già li conosce, la possibilità, ghiotta, di altri quaranta minuti di musica di qualità. Chiudiamo con un piccolo appunto e due “speranze”. L’appunto: peccato che le tre tracce cantate nuove non presentino le liriche nel booklet. Le speranze: confidiamo che prima o poi (con qualunque line-up) la band possa presentarsi per qualche data dal vivo e che, magari dal prossimo album, oltre al consolidato formato cd, si voglia “rischiare” anche il formato LP perché queste copertine lo meriterebbero.

Valentino Butti

SOLSTICE-Clann -Progrock.com Essentials -2025 -UK -Peppe Di Spirito
SOLSTICE Clann Progrock.com Essentials 2025 UK

Probabilmente i Solstice non hanno mai vissuto un periodo così stabile nella loro carriera come quello che stanno attraversando dal 2020, data di uscita di “Sia”, che vedeva una line-up la cui novità era rappresentata dall’ingresso della cantante Jess Holland al fianco del leader e chitarrista Andy Glass, della violinista Jenny Newman, del batterista Peter Hemsley, del bassista Robin Phillips e del tastierista Steven MacDaniel. La formazione si è mantenuta invariata da allora (se non si considera qualche rotazione tra le backing vocalists che accompagnano la band soprattutto in concerto) e i frutti si sono visti, grazie a tre album in studio ed uno dal vivo ed un’attività live discretamente sviluppata. Non è un caso che il titolo scelto per l’ultima loro fatica sia “Clann”, termine che in gaelico viene utilizzato per indicare “famiglia estesa”, “amicizia” e “affinità”; insomma, potremmo dire una situazione nuova per una band che in passato aveva avuto discontinuità, variazioni di organico e uscite discografiche diradate nel tempo. Così, non sorprende che l’atmosfera in “Clann” rispecchi pienamente quel senso di gioia e di positività derivante da questo periodo felice e che traspare anche dalle loro esibizioni concertistiche. “Firefly” e “Life”, posti subito in apertura, sono due brani che spingono forte in questa direzione, con ritmi vivaci, impulsi pop-rock nei momenti cantati, ma anche tante soluzioni strumentali entusiasmanti e raffinate, con violino, tastiere e chitarra a dialogare e ad alternarsi alla guida su ritmi solidi e pronti a variare, favorendo anche quei soliti slanci verso danze folk. Su coordinate simili “Plank” e “Frippa” si animano con spruzzate funk che a Glass e soci sono sempre piaciute. Poi è giusto soffermarsi un po’ di più su una bellissima composizione di quasi quattordici minuti, dall’intrigante titolo “Twin Peaks”, che si discosta un po’ dai canoni descritti finora, essendo più intimista, quasi sulla scia di “Bulbul tarang” che chiudeva il precedente “Light up”. Anche se nel testo non ci sono riferimenti espliciti a personaggi, luoghi o avvenimenti della celebre serie firmata da David Lynch, considerando il titolo, si può pensare ad un sottile omaggio con riferimenti alla tragica vita di Laura Palmer, tra cenni all’innocenza perduta e al desiderio di fuga e protezione. La composizione è sicuramente evocativa, con il suo carattere più riflessivo rispetto al resto dell’album. Parte come ballata malinconica, con morbidi arpeggi di chitarra, un violino delicato, melodie vocali docili, tastiere in sottofondo. Poi pian piano c’è un lento crescendo ben scandito dalla sezione ritmica con il culmine raggiunto dopo quattro minuti e mezzo. Dopo un gustoso solo di Andy Glass, a partire dai sei minuti e mezzo, inizia una sezione più particolare, giocata su un leggero tocco elettronico, con una specie di onda sonora che varia di volume con effetto stereofonico da una cassa all’altra, mentre le voci sovrapposte e filtrate di Jess si fanno più sofferte. Le tastiere creano uno scenario ambient, poi l’entrata della batteria e del basso porta ad un nuovo crescendo nel quale si fa largo un cantato (anche maschile) etnico/tribale che fa avvicinare alla world music. La ripresa dei temi della prima parte, una volta toccati gli undici minuti e mezzo, spinge verso un finale epico, sontuoso e carico di pathos. Sicuramente differente rispetto alla musica di Badalamenti, “Twin Peaks” riesce comunque a trasmettere un’atmosfera particolarmente suggestiva. C’è un ultimo tassello a completare il disco. Similmente a quanto avvenuto in “Sia” con la riproposizione di una nuova versione di “Cheyenne”, qui i Solstice recuperano, sempre dal loro esordio, “Earthsong”, splendido episodio elegante e pastorale che evoca i Genesis e i Renaissance più bucolici, offrendone un magnifico riadattamento. L’auspicio è che questo periodo di stabilità, abbinato alla felice ispirazione e al carisma mostrato sui palchi, si possa protrarre il più a lungo possibile.

Peppe Di Spirito

SUPERSISTER-The Elton Dean sessions -SOSS -2024 -NL -Peppe Di Spirito
SUPERSISTER The Elton Dean sessions SOSS 2024 NL

Forse non tutti sanno che nel 1974, dopo la defezione di Charlie Mariano, per il ruolo di sassofonista dei Supersister fu assoldato Elton Dean, reduce dai meravigliosi fasti dei Soft Machine. Quando si parla di questo straordinario gruppo olandese, nonostante una spiccata personalità, si fa spesso riferimento alla scuola di Canterbury per dare un’idea della musica proposta ed ecco che la presenza, anche se per un breve periodo, di una delle stelle di quella scena crea un ulteriore punto di contatto. Purtroppo, però, questa collaborazione non ha mai fruttato una incisione in studio. Fortunatamente sono emerse delle registrazioni dal vivo in cui la formazione dei Supersister, prossima allo sbando, si lanciava in spericolate e piacevolissime improvvisazioni. Così, grazie a quest’album, semplicemente intitolato “The Elton Dean sessions” è possibile ascoltare una serie di momenti strumentali brillanti tratti dalle esibizioni della line-up con Dean. Non ci sono indicazioni riguardanti date e luoghi dei concerti da cui è stato recuperato il contenuto di questo lavoro, ma quello che conta, alla fine, è il contenuto musicale, che è di altissimo livello. L’apertura è affidata a “Fenderfarfissima”, che, come il titolo lascia intuire, è un pezzo di piano elettrico targato Robert Jan Stips e rappresenta una sorta di introduzione di tre minuti alla prima di sei improvvisazioni, tutte intitolate “Super Machine” o “Soft Sister”, tranne la conclusiva, denominata “Close to the tape’s end”. In queste possiamo ascoltare l’intero gruppo all’opera, ma il sax va spesso in primissimo piano e tinge fortemente di jazz-rock progressivo la musica sfrenata del quartetto, con qualche momento più rilassato di tanto in tanto. Talvolta è possibile riconoscere qualche breve passaggio con cui viene esposto un tema noto della band, ma per lo più si tratta, in pratica, di materiale completamente inedito. Una goduria poter ascoltare i duetti tra Dean e il tastierista Stips, supportati da una sfavillante sezione ritmica. D’altronde è risaputo che la caratura tecnica di questa band è sempre stata considerata eccelsa e queste registrazioni ne danno ulteriore dimostrazione. Oltre le improvvisazioni citate, troviamo due brevi tracce di sola batteria, un accenno del loro cavallo di battaglia “Judy goes on holiday” ed una versione di “Babylon” (da “Iskander”) che si prolunga fino ad oltre tredici minuti e mezzo. Peccato davvero che questa line-up non sia entrata in studio di registrazione, perché questo disco fa capire perfettamente di cosa poteva essere capace. “The Elton Dean sessions” è una splendida testimonianza di questa unione di forze che fino ad ora non era mai stata documentata.

Peppe Di Spirito