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Recensioni

CHOCLAT FROG-On detour to shortcut -autoprod. -2023 -GER -Peppe Di Spirito
CHOCLAT FROG On detour to shortcut autoprod. 2023 GER

Aveva debuttato nel 2021 il duo denominato Choclat Frog e formato dai tedeschi Tim e Rainer Ludwig e aveva suscitato buone impressioni con una musica indirizzata verso un R.I.O. non estremo, abbastanza vigoroso e che vedeva anche non pochi elementi zappiani tra le varie influenze. Ritroviamo la coppia, ancora affiatatissima, dopo due anni, per questo nuovo album intitolato “On detour to shortcut”. Diciamo subito che se l’esordio era sicuramente più pazzoide, nel secondo lavoro la rotta cambia solo leggermente e non viene a mancare il fattore di imprevedibilità, grazie ad una serie di brani che mostrano una buona attitudine a proporre un sound intricato, ma senza mai raggiungere alcun eccesso. Rispetto al precedente disco, troviamo magari meno melodie sghembe e maggiore potenza e acidità. Se con l’opener “Spaceloop” i Choclat Frog sembrano giocare a fare degli Yes più grezzi con belle sfuriate chitarristiche, la seconda traccia “Bomb alert” ci mette di fronte a quello che sarà l’orientamento prevalente del cd, con riferimenti netti ai King Crimson degli anni ’73-’74, qualche strizzatina d’occhio a certo rock alternativo in voga negli anni ’90 (Mr. Bungle, Faith No More), stravaganze che rimandano ad altri “folli” quali i Residents e asprezze vocali. Ritroveremo caratteristiche simili in “This is my wife”, che ha anche un certo tiro nonostante i break improvvisi, nell’avant-rock di “Pollock”, con la chitarra in evidenza e ancora con svariati cambi di tempo, e in “Bound by instructions”, dove ad un inizio melodico in stile Re Cremisi anni ’80 seguono dissonanze, soluzioni cacofoniche, sperimentazioni, improvvisazioni. Con “Pulp stalking”, invece, i Ludwig presentano una sorta di heavy rock blues indolente e dalle atmosfere cupe, con alcuni frangenti in cui il basso si erge ad assoluto protagonista grazie a solos avvolgenti. La title-track, che con i suoi nove minuti è la composizione di maggiore durata dell’album, è un lungo labirinto sonoro in cui si va quasi alla ricerca di un (impossibile?) punto di incontro tra Robert Fripp e Frank Zappa, con le chitarre e i sintetizzatori a sfidarsi e con ritmi ossessivi tra tempi composti e colpi metronomici. Dopo tanti assalti frontali il finale d’atmosfera affidato ai tre minuti di “Reboot” si mostra misterioso, tra toni ambient ed una curiosa tromba campionata per una conclusione che non poteva essere più inaspettata. Come il suo predecessore, anche “On detour to shortcut” è da considerare un lavoro che richiede più ascolti ed una certa concentrazione per cogliere in pieno le trovate strumentali dei Choclat Frog. Per un approfondimento dei testi, invece, ci viene incontro il booklet di accompagnamento, che contiene anche delle note esplicative riguardanti la genesi dei vari pezzi. Non saprei dire a che livello inserire il duo tedesco in una scala di valori riferita alle frange più avanguardiste del prog odierno; di certo le qualità ci sono e questo progetto viene portato avanti in maniera convincente, con entusiasmo e discreta inventiva.

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Peppe Di Spirito

DISTRICT 97-Stay for the ending -Spirit of Unicorn Music -2023 -USA -Peppe Di Spirito
DISTRICT 97 Stay for the ending Spirit of Unicorn Music 2023 USA

I District 97, attivi dal 2006, sono riusciti a mantenersi sempre molto attivi, tra pubblicazioni in studio e dal vivo ed un’attività concertistica che li ha portati anche in Italia al festival di Veruno del 2023. Non male per una band che si muove in un mondo come quello del prog, dove è noto che ottenere anche solo un minimo di visibilità è impresa tutt’altro che facile. Ricordiamo che parliamo di un gruppo statunitense nato inizialmente dall’unione di strumentisti che amavano esibire la loro tecnica e che ha subito una sorta di evoluzione con l’entrata della cantante Leslie Hunt, finalista di “American Idol” (il corrispettivo a stelle e strisce di “X Factor”). Mantenendo una solida base di rock suonato egregiamente, i District 97 hanno inserito parti vocali che hanno dato una maggiore immediatezza alla loro proposta, riuscendo comunque a mantenerla avventurosa. “Stay for the ending” è il loro quinto album in studio e conferma tutto ciò di buono che avevano già mostrato in passato. In poco meno di un’ora, possiamo ascoltare dieci composizioni nuove di zecca che vedono protagonisti i talentuosi Andre Lawrence (tastiere), Jim Tashijan (chitarra e voce), Tim Seisser (basso) e Jonathan Schang (batteria e percussioni), oltre la citata Hunt. Fin dall’iniziale title-track e della successiva “Mirror” i musicisti si lanciano in un heavy prog potente al punto giusto e che mette in chiaro, di nuovo, che siamo al cospetto di un gruppo abile a mostrarsi tanto virtuoso quanto accattivante. Poi arriva prima “Many new things” a stemperare le cose, con un leggero tocco elettronico ed un orientamento malinconico che fa buona presa anche grazie a melodie stravaganti, poi “Crossover”, che denota un atteggiamento quasi wilsoniano nel mescolare svariate influenze, tra fraseggi orecchiabili, break improvvisi e tastiere in bello stile. “Divided we fall” è l’episodio più tosto, che porta vicino ad un prog-metal à la Dream Theater, comunque molto ben fatto, mentre “Life cycle” è la ballata delicata che va in crescendo. “X” è una bizzarra introduzione a “X-faded” che spinge su un rock più mainstream, con una modernità dettata da un finale strumentale caratterizzato da ritmi ossessivi. Nuove spinte di prog-metal “intelligente” con “Deck is stacked”, con tanto di spettacolare assolo di batteria poco prima della conclusione, sono perfetto preludio al finale affidato a “The watcher”. E che finale! Oltre nove minuti di trame articolate che riportano un po’ ai fasti dei King Crimson degli anni ’80 e un po’ ai Rush e tra un riff bizzarro che entra immediatamente in testa, un giro di basso incisivo, un’interpretazione magistrale di Leslie, una chitarra ruvida al punto giusto, ritmi variabili che accentuano una notevole imprevedibilità, non poteva esserci chiusura migliore per un disco davvero bello. Nella musica dei District 97 continua ad emergere una situazione di perfetto equilibrio tra complessità ed accessibilità, tra parti strumentali intricate e parti vocali più dirette, tra energia sonora ed eleganza sognante e tra la varietà degli stili toccati. Gruppo da tenere sempre d’occhio.

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Peppe Di Spirito

COLIN EDWIN / ROBERT JÜRJENDAL-The weight of a shadow -Hard World -2023 -AUS/EST -Giovanni Carta
COLIN EDWIN / ROBERT JÜRJENDAL The weight of a shadow Hard World 2023 AUS/EST

Questo nuovo lavoro di Colin Edwin segna il ritorno della collaborazione con il chitarrista estone Robert Jürjendal dopo la breve ma significativa esperienza come Slow Electric insieme a Tim Bowness nel 2011 ed a cinque anni di distanza dal loro primo album insieme "Another World"; questo secondo incontro segue uno stile consolidato ma esplora ulteriormente l'elettronica, donando alla musica una dimensione forse ancora più ambient.
I brani dell'album risuonano con toni crepuscolari e minimalisti, più oscuri rispetto alla raffinatezza quasi fusion dei precedenti lavori. Il processo creativo dietro "The Weight Of A Shadow" appare più intimo ed emotivo, con risvolti creativi che sfiorano concetti filosofici ed esistenziali, allo stesso tempo lasciando aperte suggestioni visionarie di paesaggi misteriosi... La direzione musicale si mantiene fedele a traiettorie di progressive electronics ed ambient. La strumentazione, essenziale, vede il basso fretless/doppio di Edwin e la chitarra elettrica di Jürjendal (spesso una Touch guitar U8) come protagonisti. Le sonorità, caratterizzate dall'esteso utilizzo del riverbero delle chitarre registrate nella campagna estone, creano un clima di sospensione e tensione palpabile; la musica mantiene costantemente un profilo discreto suonando come uno strano sottofondo sonoro, un pò ambiguo nelle sue sfaccettature di luce/ombra, che invita a un viaggio interiore di autoanalisi... Fortunatamente, non ci troviamo di fronte a qualcosa di particolarmente criptico, ma piuttosto a un’esperienza che richiede una certa familiarità con una scena musicale che dall'ex Porcupine Tree passa alle frequentazioni di Jürjendal dei guitar craft di Robert Fripp, passando per le flessioni avant-fusion di David Torn o Markus Reuter e le inflessioni ambient-bassistiche di Bill Laswell e Mick Karn, senza tralasciare le più eteree astrazioni di Michael Brook e Bill Nelson. In conclusione, ‘The Weight Of A Shadow’ è un album essenziale e minimale nella forma, ma ricco di imporanti sfumature e significati che si svelano progressivamente ad ogni ascolto.

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Giovanni Carta

JACK O’ THE CLOCK-The warm, dark circus -JoTC -2023 -USA -Jessica Attene
JACK O’ THE CLOCK The warm, dark circus JoTC 2023 USA

Albrecht Dürer, massimo esponente della pittura rinascimentale tedesca, non vide mai un rinoceronte dal vero ma nel 1515 ne eseguì un’incisione, divenuta poi molto celebre, con la tecnica della xilografia su legno, basandosi unicamente su una descrizione contenuta in una lettera. I particolari anatomici ne risultano inesatti ma la versione dell’animale che ne scaturisce è per certi aspetti verosimile ma allo stesso tempo incredibilmente esotica e surreale. Capiamo benissimo che si tratta di un rinoceronte ma la sua immagine appare come trasfigurata dalla creatività dell’artista. E’ assolutamente impossibile non subirne il fascino e tutte queste sensazioni traspirano perfettamente da questa insolita creatura che è l’ottavo album in studio dei californiani Jack O’ The Clock. Vi è in particolare un lungo brano che si intitola appunto “Dürer's Rhinoceros”, al quale la copertina stessa del disco si riferisce, che farà emergere piacevoli suggestioni narrative grazie ad una descrizione sonora poliedrica, insolitamente assemblata.
Damon Waitkus, multistrumentista e anima del gruppo, è sempre stato un maestro nel mettere assieme influenze musicali di diversa estrazione in modo creativo ed estremamente personale, donando forme semplici a idee musicali complesse, facendo confluire spietati elementi avanguardistici in una formula piacevole che non prescinde dalla cantabilità. Per questo suo stile unico ricordo con piacere le belle produzioni del passato, che partono nel 2008 con “Rare Weather”, e con piacere ancora più grande prendo atto che questo nuovo lavoro ha soddisfatto ogni aspettativa, spingendosi se possibile anche oltre.
Qualche parola va sicuramente spesa sul ricco organico di musicisti di cui Waitkus ama circondarsi. Egli stesso, oltre a cantare, suona chitarre, pianoforte, flauti ed il dulcimer martellato, strumento che conferisce una piacevole impronta etnica ad uno stile musicale assolutamente multiforme. Un esempio delle potenzialità di questo strumento lo assaporiamo subito nella traccia di apertura, la Genesisiana “The Ladder Slipped”, con le sue riconoscibili influenze folk americane corroborate da elementi etnici di provenienza indeterminata. Troviamo poi Emily Packard al violino e alla viola, Kate McLoughlin al fagotto, Josh Packard al violoncello, Ben Spees alla chitarra microtonale, Art Elliot al piano, Karl Evangelista alla chitarra elettrica, Myles Boised al pedal steel, Victor Reynolds al flauto dolce, alla chitarra, all’armonica e alla voce, Thea Kelley alla voce, Ivor Holloway al sax, Jon Russell ai clarinetti, Keith Waters al sax baritono e, per chiudere, la sezione ritmica con Jason Hoopes al basso e Jordan Glenn alla batteria ma anche ai synth e alla fisarmonica.
Vi rendete conto che abbiamo a che fare con una piccola orchestra e sicuramente ogni strumento è funzionale al raggiungimento di una dimensione sonora densa ed opportunamente stratificata. Alcuni brani, parliamo di quelli più estesi, sono frutto di una gestazione molto lunga che si spinge fino alle prime fasi di vita del gruppo. Fra questi ci sono i già citati “Rinoceronti di Dürer”. Atmosfere orchestrali ed aleatorie si espandono con dolcezza, prendendosi i loro spazi con garbo e poi è tutto uno scintillio di sensazioni sonore, fragranze esotiche, costruzioni cameristiche dai tratti avanguardistici con deliziosi elementi microtonali, speziate colorazioni etniche, in un piacevole turbinio di percezioni che ci rimandano a Gentle Giant, Henry Cow e Genesis. L’alito del folk americano si tinge di profumi orientali con nuance jazzy e deliziosamente Canterburyane in un ibrido inebriante. Le idee melodiche di base sono sempre lucide ed intellegibili e si esemplificano in un cantato nitido che viene spartito fra la voce vellutata di Waitkus e quella cristallina di Thea Kelley. Se dovessi scegliere un brano su tutti che possa esemplificare la genialità e la duttilità di questo gruppo potrebbe essere proprio questo.
Ma le sorprese non finiscono qui e “How are We Doing…”, l’altro pezzo esteso, ci sbatte in faccia scenari sonori sconnessi dal temperamento industriale e dall’anima free jazz. I giochi si fanno sicuramente più duri in questa traccia che assieme alla successiva “And Who Will Tell Us?” ci riporta concettualmente all’omonimo album del 2011 dal quale immagino che certi frammenti siano schizzati fuori con violenza. Present ed Univers Zero possono esser chiamati benissimo in causa per questa formulazione bizzarra, complessa e stressante ma ad ogni fase di tensione ne corrisponde una di distensione in cui le tenebre si diradano alla luce soprattutto di parti cantate fruibili e dai contorni morbidi. Melodia e rumori, orchestrazioni e ritmi spezzati trovano una sintesi equilibrata e caleidoscopica, esemplificando quindi la familiarità e allo stesso tempo l’esoticità del nostro rinoceronte. Alcuni episodi sono semplicemente deliziosi, come la poetica ballad “This Is Just What It Seems” o come la delicata “Snowman on a Ledge”, fragile miniatura che chiude con semplicità un album complesso ed affabile da esplorare con curiosità ed avidità.

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Jessica Attene

JAZZ Q-Live Plzeň 1980 -Gad Records -2023 -CZE -Peppe Di Spirito
JAZZ Q Live Plzeň 1980 Gad Records 2023 CZE

I Jazz Q erano una di quelle band per le quali il palco era anche momento per perfezionare nuove composizioni. Il materiale d’archivio uscito negli ultimi anni è lì a dimostrarlo ed accogliamo con piacere questa nuova pubblicazione che recupera un concerto inedito registrato a Pilsen nel 1980. Era l’anno di uscita di “Hodokvas”, brillante lavoro di fusion, che non disperdeva la componente jazzistica sempre presente nella musica della band, accentuandone le caratteristiche più rock. Ed una certa robustezza la si avverte anche ascoltando questo nuovo documento, soprattutto per merito di Frantisek Franci, che con la sua chitarra abrasiva è perfetto contraltare del leader Martin Kratochvil, sempre pronto con le sue tastiere a spingere invece sul versante jazz. La line-up dei Jazz Q ha subito variazioni continue nel tempo e all’epoca era completata da Vladimir Padrunek al basso e da Pavel Trnavsky alla batteria. Il live in questione mostra una band solida, che suona alla grande e nella quale ogni componente dà un contributo fondamentale. Il basso è potente e in bella evidenza in ogni pezzo, il moog e il piano elettrico di Kratochvil si lanciano in spazi solistici che trasmettono sempre belle vibrazioni e si può dire che i Jazz Q sono stati catturati in una prova decisamente felice. “Pralesni pisen” è un’apertura perfetta dello show, con un jazz-rock potente che mostra subito le qualità del gruppo. “Pecet” (tratto da una compilation e che dal vivo guadagna molto) e “Madona” sono due momenti più lenti e misteriosi, con Kratochvil abile a infondere con le sue tastiere una certa epicità. “Trhanec” è un episodio che verrà registrato in studio solo per “Asteroid” del 1984 e qui rappresenta una deliziosa primizia con la sezione ritmica pronta a pulsare con insistenza e a dare notevole vigore al brano. Stesso discorso, ancora più marcato, per “Az se ucho utrhne”, che parte e si conclude in maniera molto energica, mentre nel mezzo si fa più raffinata con le fughe incantevoli delle tastiere. Questo live dura soltanto trentacinque minuti, ma è sicuramente un gran bel ripescaggio e vale la pena fare questa spesa per arricchire la vostra collezione, soprattutto se siete amanti del jazz-rock progressivo strumentale.

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Peppe Di Spirito

JORDSJØ-Salighet -Karisma Records -2023 -NOR -Jessica Attene
JORDSJØ Salighet Karisma Records 2023 NOR

“Salighet” si traduce dal norvegese con “beatutudine”, la sensazione cioè che ogni appassionato di Prog sinfonico di stampo nordico dovrebbe provare assaporando le sette nuove tracce che compongono questa quarta prova discografica degli Jordsjø.
Il duo di Oslo, composto dal batterista e percussionista Kristian Frøland e dal multistrumentista Håkon Oftung (voce, flauto, chitarra, basso, Hammond M100, Clavinet D6, ARP Pro Soloist, Fender Rhodes e Solina), col contribuito di tre ospiti, il clarinettista Mats Lemjan, il tastierista Ståle Langhelle con un ARP Pro Soloist aggiuntivo e Vilde Mortensen alla voce, conosce bene gli ingredienti ed i punti forti di un certo tipo di Prog e li usa senza esclusione di colpi per arrivare dritto al cuore degli ascoltatori. Mai come ora la loro arte ha raggiunto tali livelli di compiutezza e maturazione, offrendoci tutto ciò che una certa fetta di appassionati brama, in un turbinio di déjà vu che si basano sui piacevoli suoni di sintetizzatori vintage e sulle colorazioni brumose del folklore scandinavo.
Con “Salighet” il gruppo esplora forme diverse di estasi che siano esse evocate da un’escursione in montagna o da una danza o da una qualsiasi forma di viaggio interiore, non necessariamente di natura religiosa. I brani hanno tutti una propria anima talvolta selvaggia, talvolta misteriosa ed altre volte dolce ed inafferrabile. “Invokasjon” è un breve strumentale che ci accoglie in modo energico, col suo organo tempestoso ed il flauto, secondo un copione già visto con gli Änglagård. Colate di tastiere di stampo sinfonico ci conducono verso scenari rarefatti e cameristici e le sensazioni mutano repentinamente come spesso accade nell’arco di questo album. “Sankeren” presenta una vocazione folk più netta con momenti elegiaci che ricordano un po’ i Wobbler. La voce di Håkon è timida ma piacevole e perfettamente adeguata al mood del brano che improvvisamente cambia ritmi e pathos, si elettrifica, si tinge di psichedelia e acquisisce imponenti contaminazioni Crimsoniane.
“Salighet I” ci corteggia con le sue colorazioni semiacustiche. Troviamo riferimenti Tulliani e densi richiami ad Änglagård ed Anekdoten. Le aperture tastieristiche sono vellutate, con elementi folk e spiragli di musica antica. Le suggestioni sono quelle di un fitto sottobosco con le sue fragranze muschiate ed i cangianti giochi della luce che occhieggia atraverso nel fitto fogliame. “Salighet II” si nutre di contrasti più decisi anche se appare in continuità emotiva con il precedente episodio. L’architettura è complessa e non lineare, gli spunti sono molteplici in un mosaico ricco di melodie ed arrangiamenti. “Ura” ha sentori psichedelici più evidenti ma il momento più elevato del disco è forse rappresentato dalla conclusiva “Stjernestigen”, “la scala delle stelle”, un pezzo decisamente cinematografico, imbevuto di una dolce sinfonicità, con sentori notturni e preziosi momenti cameristici. Il brano si sviluppa adagio lungo sentieri tracciati da synth con i registri soffusi degli archi che gradualmente sfumano via portando verso l’oblio un album breve ma intenso ed onirico di cui sono sicura che ci ricorderemo ancora a lungo.

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Jessica Attene

EDMONDO ROMANO-Religio -Visage Music -2024 -ITA -Peppe Di Spirito
EDMONDO ROMANO Religio Visage Music 2024 ITA

Dopo i buoni riscontri con il bell’album “Puer aeternus” degli Ancient Veil, a inizio 2024 è stato pubblicato anche il nuovo solista di Edmondo Romano. Stiamo parlando di un musicista che in ambito prog non dovrebbe avere bisogno di presentazioni, visti gli oltre trentacinque anni di carriera che lo hanno visto protagonista con Ancient Veil e Eris Pluvia in primis, ma durante i quali si è ritrovato a suonare e collaborare con una miriade di artisti di spessore e anche solo accennare una lista sarebbe davvero riduttivo. Il suo nuovo parto “Religio”, concept nel quale viene esaminata la relazione dell’uomo con il visibile e l’invisibile, è il capitolo finale di una trilogia dedicata alla ricerca interiore umana. Nello specifico, si parla del percorso che fa l’uomo con una crescita spirituale, tenendo conto anche del suo rapporto con la religione (da qui il titolo). Per la realizzazione dell’album si è contornato di musicisti e cantanti talentuosi, dal diverso background, cosa che ha permesso di andare ad esplorare in libertà e di mantenere una qualità sempre elevata in tutti i tredici brani proposti. Già l’introduzione strumentale intitolata “La creazione” fa capire molto dell’orientamento stilistico dell’album, con la raffinatezza dei fiati di Romano che va ad unirsi ad un comparto orchestrale pregno di romanticismo e mistero, con vocalizzi femminili a condire il tutto. Quest’eleganza sonora si manterrà fino alla fine ed è una caratteristica che non si perde mai. Tra bozzetti strumentali ed uno spirito di ricerca mai domo, gli elementi classicheggianti e da camera, con gli archi spesso in evidenza, emergeranno costantemente durante l’ascolto e, senza far venire meno l’omogeneità del disco, non mancheranno episodi più particolari, nei quali si vanno a toccare un jazz soffuso e notturno (“What I want to be”), sperimentazioni vocali tra il classico e la world music (“In estasi” e “Agape”), ambient (“La seduzione”), la lirica (“Nel mio andarmene”), incantevoli atmosfere pastorali (“La scelta”), fino al finale altisonante de “L’urlo di Eliso”. Non siamo certo di fronte ad un classico album prog (qualsiasi cosa intendiate con questi termini), ma ad un lavoro meritevole non facilmente catalogabile, che abbatte le barriere, che fa dell’eleganza il suo punto di forza e che mette in mostra la piena maturità di un musicista capace di incantare con svariati progetti.

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Peppe Di Spirito

VRAJITOR’S TENEBRARIUM-E.N.L.D. -Avantgarde Music -2023 -FIN -Peppe Di Spirito
VRAJITOR’S TENEBRARIUM E.N.L.D. Avantgarde Music 2023 FIN

Il nome di Lord Vrajitor, alias Juuso Peltola, stuzzicherà sicuramente l’interesse dei lettori vicini al metal. Già, perché il musicista finlandese è attivo da anni in svariati progetti, tra i quali ricordiamo Old Sorcery, Argenthorns e Warmoon Lord, abbastanza vicini a certi filoni estremi. Eppure tra le passioni di Vrajitor c’è anche quella che lo lega alle colonne sonore di film horror ed exploitation, soprattutto italiane. Si è voluto così lanciare in questa nuova avventura denominata Vrajitor’s Tenerarum e dichiaratamente ispirata a Maestri come Goblin, Fabio Frizzi, Riz Ortolani, Bruno Nicolai, Jacula e Devil Doll. Una base di partenza non dissimile da quella degli svedesi Anima Morte o dei nostri connazionali Albero del Veleno per il musicista, che è autore di tutte le composizioni, si impegna con chitarre, basso, bouzouki e sintetizzatori e si fa accompagnare da personaggi dal nome misterioso, quali Metronomicon alla batteria (chi l’avrebbe mai detto…), Ville Jolanki al sassofono e al clarinetto e E.N.R.I. alla chitarra dodici corde. Completa il quadro la presenza di alcuni cantanti, con più voci femminili, anche se per lo più siamo di fronte ad un disco, intitolato “E.N.L.D.”, strumentale. “Et mors pallida venebit”, è una gustosa introduzione guidata da un organo sepolcrale e dove compare una parte recitata da una voce femminile, così, i primi parallelismi che scattano sono quelli con i nostrani Jacula. “Rubedo” parte con un riff minaccioso di tastiere e i Goblin sono dietro l’angolo; l’entrata della sezione ritmica dà uno scossone heavy, consolidato dalle soluzioni chitarristiche. I Goblin sono evidenti punti di riferimento anche in diverse altre composizioni, quali “Black frog”, “Lucus horribilem aquae pestilentem” e “Sanitarium song”. Vrajitor’s strizza di nuovo l’occhio agli Jacula con “La maledizione della fanciulla alata”, narrata in italiano, nuovamente da una voce femminile, mentre “Venus in the closter” è un pezzo più particolare, con un’introduzione dalle tinte fosche dove si uniscono timbri elettrici ed acustici, con un leggero sapore folk ed un prosieguo malinconico nel quale risaltano melodie quasi morriconiane. “Volantes castrum” ha la particolarità di mettere in evidenza il sassofono, che spicca tra orchestrazioni altisonanti, ritmi sincopati, vibrazioni funk-rock ed una linea di basso che aiuta a caricare il brano di un groove intrigante. Pioggia, campane, rintocchi ad una porta che si apre e si chiude, passi, catene che strisciano per terra, altri rumori metallici, voce distorta e demoniaca e sound ambient per poco più di due minuti in pieno horror style ed anche “Panctum ultra sepulcrum” è pronta a portare qualche brivido. “Exorcismus” è un brano ancora più vicino al prog, con le tastiere a guidare un rock sinfonico dalle tinte ovviamente dark, con indovinate variazioni ritmiche. Conclusione nuovamente in stile Jacula, con “Semper victimas vult”, che sembra la chiusura perfetta di un cerchio. È facile entrare in sintonia con questa musica che ha una componente emozionale non indifferente ed è positivo l’approccio al mondo del prog di Vrajitor, anche se il suo retaggio legato a musica particolarmente energica comporta qua e là qualche pesantezza che appare leggermente forzata. Difettuccio veniale che non inficia la buona riuscita dell’album. Le impressioni finali, infatti, sono quelle di un lavoro sicuramente gradevole e ben costruito, in grado di portare ai giorni nostri scenari sonori in voga oltre cinquanta anni fa e che non faticherà ad entrare nelle grazie di chi, come Vrajitor, ha un debole per le colonne sonore horror.

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Peppe Di Spirito


Retrospettive/Specials

6 DISCHI PER IL 2023 - A cura della redazione di Arlequins
6 DISCHI PER IL 2023 A cura della redazione di Arlequins
 

Un altro anno è passato… se non è zuppa è pan bagnato! Ogni anno si cerca di trovare parole ed espressioni non troppo ripetitive (non dico originali!) per scrivere l’introduzione di questo nostro consueto appuntamento. La verità è che la vita comincia seriamente a chiederci conto del nostro tempo… gli ascolti di nuovi dischi (dischi?) si fanno sempre più rarefatti e bisogna faticare sempre di più a buttare giù una sestina di nomi che ci hanno un minimo impressionato… e infatti qualcuno di noi ha ritenuto una scelta migliore quella di non partecipare.
Questo non vada comunque a penalizzare lo sforzo di chi, comunque, cerca di buttare giù due righe che -chissà…?- magari per qualche lettore potrebbero persino tornare utili o quanto meno interessanti.
Come al solito… buona lettura!



VALENTINO BUTTI

SEVEN IMPALE - "Summit": Al terzo album la band norvegese coniuga alla perfezione quanto abbozzato nei primi, più che buoni, due lavori: heavy, jazz,sinfonico... tutto in assoluta libertà.

THE CHRONICLES OF FATHER ROBIN - “The songs & tales of Airoea book 1/2/3”: Saranno ripetitivi, "filoni", poco ispirati come si narra (erroneamente...) a proposito della new vague dei gruppi scandinavi, sta di fatto che questo "nuovo" supergruppo (con membri di Tusmørke, Jordsjø, Wobbler), oltre a tre splendide copertine, sforna un triplo album (anche acquistabile singolarmente) davvero coinvolgente, pescando molto anche dai gruppi di provenienza.

MOON SAFARI - “Himlabacken vol. 2”: A dieci anni di distanza dal precedente, si ripropone anche questo gruppo svedese. Non il loro miglior lavoro,a mio parere, ma se cercate melodie di alto livello dovete, quantomeno, ascoltarlo.

THE ANCIENT VEIL - “Puer aeternus”: Edmondo Romano ed Alessandro Serri (i principali compositori) sfornano ad oltre 30 anni di distanza dal "loro" "Rings of earthly light" (a nome Eris Pluvia), un lavoro che ha nulla da invidiare all'illustre predecessore.

CROWN LANDS - “Fearless”: Duo nativo-canadese che "conosce" molto bene i (migliori) Rush. Non è un buon motivo, a mio parere, per non considerarli come meritano. E, pare, abbiano anche un buon seguito...dalle loro parti.

OCKRA - “Gratitude”: Mai avrei pensato di poter apprezzare (e molto...) una band stoner/doom...Invece mi sono imbattuto in questo gruppo svedese (ancora...) per puro caso ed è stato amore al primo ascolto. Certo, oltre a sonorità cupe, la band aggiunge molto altro ( folk, sinfonico, hard rock) ed il risultato, per me, è entusiasmante.

MICHELE MERENDA

AGUSA - "Prima materia": Ancora una volta, bisogna nominare loro. In un’annata in cui vi sono poche uscite che davvero entusiasmino, gli scandinavi continuano ad essere il punto di riferimento per chi desideri ascoltare ai giorni nostri qualcosa che sia davvero piacevole e suonato bene allo stesso tempo. Non sono mai stati degli innovatori e stavolta i rimandi evidenti vanno verso i Camel. Si può tranquillamente affermare che la loro proposta strumentale riesce a far stare bene dentro, senza lasciarsi prendere da nessuna smania elitaria.

CAMBIO DELLA GUARDIA - "Cambio della guardia": Una sorpresa, che stava passando praticamente inosservata. I riferimenti vanno ai grandi classici nostrani come Banco del Mutuo Soccorso, PFM, Le Orme. Occorre aggiustare il tiro nelle parti cantate, anche perché i testi suonano proprio come quelli di tanti anni fa e l’effetto non è sempre dei più piacevoli. Ma se ci si sente affezionati ai vecchi tempi, il gruppo romano mostra un’attitudine strumentale che può tranquillamente essere apprezzata. Non certo un album da top list, ma sicuramente da inserire in un elenco di lavori che meritano di essere segnalati per vari motivi.

FRENCH TV - "A ghastly state of affairs": L’articolato jazz/prog della band statunitense, capace anche di momenti umoristici, viene pubblicato dalla nota Cuneiform Records. Il gruppo, così, esce dal circuito dell’autoproduzione. Anche stavolta in compagnia del chitarrista giapponese Katsumi Yoneda (già con gli ottimi connazionali TEE), i nostri non si risparmiano affatto. Come si dice sul loro bandcamp, per chi apprezza Happy The Man, National Health, Bruford, Brand X. Per molti… ma non certo per tutti.

LARS FREDRIK FRØISLIE - "Fire fortellinger": debutto per il tatierista/batterista e cantante norvegese, già protagonista assieme ai connazionali Wobbler (anche la copertina dell’album sembra rimandare chiaramente al gruppo madre). Accompagnato dal bassista Nikolai Hængsle, non si può certo gridare all’originalità, ma di sicuro il lavoro è molto godibile (soprattutto in un’annata non eccezionale per le sue uscite), suonando vintage ma senza dare la sensazione di essere uno sterile clone. Testi cantati in lingua norrena, che ben si adattano ad una musica che oscilla tra vari stilemi prog, dal sinfonico al folk, passando per la versione più hardeggiante.

MOTUS LAEVUS - "Sifr": Piacevolissimo ritorno della band ligure, formata da professionisti che già si sono affermati in altre realtà. La musica che viene dal mare è sempre suggestiva e stavolta – se possibile – più complessa, anche più cerebrale. Chi ama il Mediterraneo non potrà non apprezzarli, capaci come sempre di riportare antiche tradizioni e farle suonare attuali, traslandole spesso in contesti jazzati. Un coinvolgimento che parte dal respiro, risale per la mente e irradia lo spirito.

ZOPP - "Dominion": Il polistrumentista britannico Ryan W Stevenson torna con la creatura Zopp, assieme al batterista Andrea Moneta (già con i romani Leviathan) e ad altri sporadici ospiti, soprattutto ai fiati. Il riferimento al Canterbury sound è anche stavolta evidente, sia nelle partiture strettamente musicali che in quelle cantate. Ispirazione che guarda a Egg, Hatfield & The North ma anche Caravan, resi attuali e decisamente incisivi. Una gran bella energia, senza discussione.

ROBERTO VANALI

AMOEBA SPLIT - "Quiet Euphoria": Disco dell’anno, assolutamente. Una conferma indiscutibile per il loro jazz rock esposto in maniera sempre personale, tra spunti zappiani, Soft Machine, ritmi intricati e serrati, un centro perfetto, maturo e tecnicamente ineccepibile.

PASKINEL - "Maraude Automnale": A dispetto di una copertina orribile e inquietante, ecco un ottimo disco intriso di spigoloso e personale jazz rock, con un bassista cresciuto a pane e Squire e un tastierista molto seventies. Un organico molto accattivante e arioso. E poi flauto, violino, qualcosa chiaramente canterburyano. Oh, da non perdere.

ZOPP - "Dominion": Se l’aspetto principale che può colpire è un graduale abbandono di temi canteruryani è anche vero che la varietà di trame affrontate fa di questo lavoro una uscita imperdibile dell’anno. Ma tra le atmosfere che si miscelano al folk e a strali più spigolosi (forse Yes e Gentle Giant?) Canterbury ritorna alla grande e il tutto, ben organizzato, fa un gran disco, comunque.

FRENCH TV - "A ghastly state of affair": Un disco serissimo, che ribalta i canoni del RIO inserendo temi e canoni apparentemente distanti dal sub genere. Qui si crea un distacco e un allontanamento da temi più complessi e avvicina la musica del disco ad un jazz moderno e antico assieme, sinfonico, canterburyano e trasognato, dove ogni spunto musicale si alterna senza soluzione di continuità agli altri con cambi repentini quanto impercettibili. La band segue quindi il filone avviato nel 2017 con “Operation Mockingbird” e fa un altro bel centro.

UNIVERS ZERO - "Lueur": Si potrebbe definire come la loro seconda opera del nuovo corso, visto che i temi di questo Lueur seguono le linee tracciate con “Phosphorescent Dreams”. Anche qui si propende per un distacco da quelli che erano i cupi e tetri temi stilistici precedenti, predominano, invece, aperture sempre maggiori a temi più pastorali, sinfonici e rilassati. Ma quando quei temi arrivano, è un esplosione che rimarca la grande forza compositiva della band. Disco notevolissimo, come d’abitudine.

IL BACIO DELLA MEDUSA - "iMilla": Il mio consiglio per il disco italiano dell’anno, forse meno prog, rispetto alle altre scelte, ma che dimostra grande crescita e grande professionalità compositiva ed esecutiva. Un concept imperdibile.

MAURO RANCHICCHIO

THE CHRONICLES OF FATHER ROBIN - "The Songs & Tales of Airoea": un progetto in tre volumi di lunghissima gestazione, portato avanti dal frontman Andreas Prestmo già all'inizio degli anni '90 sulla scia della nuova ondata del prog scandivano: includendo membri di Wobbler, Tusmørke, Jordsjø e The Samuel Jackson Five possiamo intuirne il genere ed avere alte aspettative, a cui a mio parere il triplo album tiene fede.

LARS FREDRIK FRØISLIE - “Fire fortellinger”: il tastierista di Wobbler e White Willow approfitta dei mesi di lockdown per mettere su nastro (quasi) in solitudine le sue nuove composizioni, con testi in lingua norvegese, cimentandosi anche alla batteria. Il risultato è eccellente, con echi del revival prog scandinavo ma anche di lavori storici italiani.

JORDSJØ - “Salighet”: la band del polistrumentista Håkon Oftung non ha ormai bisogno di conferme e con ogni nuovo lavoro ci delizia con un prog sinfonico dal sapore organico e antico... le parti vocali al solito non sono il massimo della raffinatezza, ma contribuiscono al feeling artigianale.

MONARCH TRAIL - “Four Sides”: la band canadese guidata da Ken Baird non sbaglia un colpo e dopo aver raggiunto un pubblico più ampio con il precedente, ottimo "Wither down", propone un album di rock sinfonico impeccabile, trascinato da ben tre suite la cui durata oscilla attorno ai 20 minuti, senza riempitivi!

ELOY - “Echoes from the Past”: il capitano della nave Frank Bornemann perde il suo vice Michael Gerlach, coautore già dai tempi di "Ra" e "Destination" ma può ancora contare sullo storico bassista Klaus Peter Matziol: il risultato è un album sorprendentemente vicino allo stile del periodo d'oro, pur ovviamente non raggiungendone le vette.

AGUSA - “Prima Materia”: un lavoro che conferma gli influssi canterburiani del precedente, aggiungendo qualche ingrediente latino, forse dovuto all'origine venezuelana della flautista Jenny Puertas. Qualcuno ne ha criticato la mancanza di complessità: in effetti i temi sono semplici ma godibilissimi, non cerchiamo il cervellotico ad ogni costo!

ALBERTO NUCCI

LE ORME - "...and Friends": Non mi aspettavo granché da questo (annunciato) ultimo album della gloriosa band e invece i nostri sfoderano un colpo di coda di notevole livello. Bello, anche se lascia un po' il tempo che trova, pure il secondo CD di cover.

RETREAT FROM MOSCOW - “Dreams, Myths and Machines”: il ritorno del new Prog inglese, con un bell'album che scuote via le atmosfere stantie che spesso pervadono i pochi album che ripercorrono questo stile.

TRITOP - “Rise of Kassandra”: come avevo pronosticato, si tratta di un album che è stato apprezzato più all'estero che in Italia. Ben realizzato, gradevole e appassionante... anche se, gioco forza, niente di nuovo sotto al sole.

RUBBER TEA - "From a Fading World": bell'album, tra il Canterbury, il sinfonico alla Camel e una fusion delicata. Ascoltato da pochissimi giorni, mi è rimasto subito in testa.

JOHN LÖNNMYR - "Aftonland": la sorpresa dell'anno arriva da questo tastierista svedese che sfodera un album Prog di tutto rispetto... sinfonico, jazzy, un pizzico di folk... sorprendente anche perché non ce lo aspettavamo proprio.

GONG - "Unending Ascending": il leone graffia ancora. cambiano le formazioni, la figura di riferimento... ma la sigla Gong è sempre una garanzia.

PEPPE DI SPIRITO

FREE HUMAN ZOO - "The mysterious island": Prendere un tema stupendo di una vecchia colonna sonora del compositore Gianni Fierro. Portarlo ai giorni nostri e orientarlo verso un jazz-rock dai connotati zeuhl. Eseguire il tutto con una classe sopraffina. Ecco, quanto hanno fatto i Free Human Zoo con questo disco meraviglioso che, a parer di chi scrive, stacca nettamente gli altri del 2023.

ONE SHOT - "111": Un ritorno atteso, con un nuovo assetto che fa a meno della chitarra del compianto MacGaw, per far spazio a due tastiere, più la solita sezione ritmica infuocata. E sfornano un altro album di potente jazz-rock che va ad inserirsi in una discografia senza sbavature.

SOLSTICE - "Light up": Andy Glass e i suoi Solstice stanno vivendo una seconda giovinezza. Continuano a proporre un sound in cui è la melodia a farla da padrone. E, tra new-prog arioso, pop-prog, atmosfere sognanti, spruzzate funky e la splendida performance vocale di Jess Holland, confermano la fase di felice ispirazione aperta da "Sia".

BALLETTO DI BRONZO - "Lemures": Era atteso... Oh, se era atteso... e Leone non delude. Con un sound moderno, tecnologico, che non lascia molto spazio alla nostalgia, recupera le atmosfere plumbee di "Ys" e le porta ai giorni nostri. L'eredità da raccogliere era pesante, ma da un personaggio così il colpo da maestro era possibile ed è arrivato.

AMOEBA SPLIT - "Quiet euphoria": Chi ama il variopinto jazz-rock canterburiano erede di Hatfield and the North e National Health dovrebbe avere già apprezzato i primi dischi degli spagnoli Amoeba Split. Che anche stavolta colgono nel segno, con una musica capace di abbinare alla perfezione tecnica e feeling.

IL BACIO DELLA MEDUSA - "iMilla": Ormai il Bacio della Medusa è da considerare uno dei capisaldi del prog italiano attuale. Anche quando cambiano direzione sono pienamente convincenti, come in questa occasione, in cui ci raccontano una storia a modo loro, tra canzoni articolate, riferimenti tulliani e prog sinfonico, ma con tante sorprese. La maturità è ormai davvero totale.

ANTONIO PIACENTINI

MOON SAFARI - “Himlabacken Vol.II”: Fa parte della categoria di quei dischi "moderni che girano oltre l'anno di uscita sul mio lettore. Melodico, tecnico, accattivante come solo un disco dei Moon Safari sa essere. Per tutti.

LARS FREDRIK FRØISLIE - “Fire fortellinger”: fa parte di quei dischi che appena usciti pensi : "bello..girerà sul mio lettore oltre l'anno d'uscita...poi invece ti accorgi che comunque se metti un disco scandinavo a caso dei tempi d'oro non cambia nulla...per appassionati.

CARAVELA ESCARLATE - “III”: fa parte di quei dischi che appena usciti tutti ne parlano... poi lo ascolti... una.. due.. tre volte e pensi... ma perché la gente (gente... 15 persone eh) ne parla?...per quelli che amano collezionare alluminio.

IL BACIO DELLA MEDUSA - “iMilla”: Ora vanno tanto di moda i podcast crime o politici ...ecco iMilla è un podcast crime o politico musicato… e musicato bene. Per quelli che non riescono a vivere senza Blu Notte di Lucarelli o Indagini di Stefano Nazzi.

LE ORME - “…and Friends”: non tutto ma soprattutto i pezzi a firma Tony Pagliuca mi hanno colpito tanto... soprattutto le parti di chitarra… che per un disco a nome le Orme è strano… comunque gli Osanna che su un disco de Le orme fanno un prog medley di brani degli Osanna è una pacchianata. Per quelli che non vivono senza anni ‘70.

OZRIC TENTACLES - “Lotus unfolding”: è il classico disco degli Ozric Tentacles... sì… è sempre quello... ma in un’epoca dove non si sa cosa succede domani... alla fine ci sta... e pure bene. Per quelli che vogliono certezze nella vita.

JESSICA ATTENE

JACK O' THE CLOCK - "The Warm Dark Circus": grande ritorno per il gruppo americano capitanato da Damon Waitkus. Album poliedrico ed affabile che sintetizza perfettamente il credo musicale di questa band unica ed originale. Teso fra avanguardia e cantabilità con chiazze di folk e sinfonicità. La conferma che aspettavamo e che sapevamo sarebbe arrivata.

JORDSJØ - "Salighet": tutto quello che un amante del prog sinfonico di matrice nordica possa desiderare, all'ennesima potenza.

ULTRAPHAUNA - "No no no no": un mosaico di visioni sonore di ispirazione diversa. Avant Rock garbato con colorazioni etniche di provenienza varia. Un mercato delle pulci pieno di curiosità. Elegante ed eclettico, insolito e non lineare. Una deliziosa sorpresa.

HOKR - "Starej Hokr Vol. 2": il grande ritorno del gruppo di Pavel Čermák in tutta la sua causticità e ruvidezza. Una colata incandescente di jazz rock irriverente e grezzo condito da raptus avanguardistici. Spassosi come al solito se non avete problemi a digerire cose pesanti.

AGUSA - "Prima Materia": una piccola istituzione del prog svedese che ci ripropone la consueta formula a base di folk, Canterbury e psichedelia che ci suona così familiare e confortevole.

ZOPP - "Dominion": gradito ritorno per il gruppo inglese che ci irretisce con un album dalle avvolgenti colorazioni tastieristiche a dai sofisticati richiami Canterburyani.

FRANCESCO INGLIMA

MONIKA ROSCHER BIGBAND - "Witchy Activities and the Maple Death": Per quanto mi riguarda il miglior disco del 2023: big band tedesca che fagocita qualsiasi cosa, dal jazz al prog, dal pop all'avanguardia, per creare una proposta sonora complessa e allo stesso tempo accattivante.

JACK O' THE CLOCK - "The Warm, Dark Circus": Una garanzia, giunti al nono album continuano a non sbagliare un colpo. Pur fedeli alla loro cifra stilistica riescono sempre a sorprenderci con la loro proposta folk prog.

TUSMØRKE - "Hestehoven": Inutile girarci attorno, sono sempre dei gran cazzoni che si divertono un casino a suonare la loro musica. Il loro pregio è però quello di riuscire a far divertire anche l'ascoltatore.

LARS FREDRIK FRØISLIE - "Fire fortellinger": Niente di nuovo sotto il sole, ma è un album onesto e ben suonato che sa toccare tutte le corde degli appassionati di prog.

HOKR - "Starej Hokr Vol. 2": Buon ritorno per lo storico gruppo ceco, che pur perdendo un po' di verve teatrale, riesce a regalarci un album cupo e sporco al punto giusto, dove il jazz-rock si tinge di avant-prog.

HOMUNCULUS RES - "Ecco l'impero dei doppi sensi": Pur con le radici sempre fortemente ancorate nel Canterbury sound aumentano la componente pop e psichedelica, rendendo il tutto più fruibile e godibile.



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