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Recensioni

MARCO BERNARD-Moby Dick -Seacrest Oy -2025 -ITA -Valentino Butti
MARCO BERNARD Moby Dick Seacrest Oy 2025 ITA

Poteva trascorrere un anno senza che un “Samurai Of Prog” battesse un colpo (non consideriamo qui “Omnibus 4” raccolta di album precedenti con inediti)? Ovviamente no…ed ecco che sul finire del 2025 Marco Bernard (il bassista) se ne esce con questo “Moby Dick” con un cd suppletivo di cover. Parte integrante del progetto musicale la “solita” (è il caso di ripeterlo) meravigliosa confezione cartonata a tre ante con dettagliato booklet a cura di Ed Unitsky, uno dei migliori illustratori di album progressive degli ultimi anni. Anche la ricetta è quella ormai consolidata da sempre in ambito SoP: un gruppo di musicisti ormai consolidato (anche se ogni tanto non manca una new entry) che fornisce il proprio talento al servizio del progetto a cui è destinato. Stavolta le musiche e le liriche sono incentrate su “Moby Dick”, capolavoro di Herman Melville, affrontato con un'ottica diversa, con la balena bianca non più, o non solo, simbolo di distruzione bensì di saggezza. A ciò si aggiunge il messaggio ambientale sull’importanza del cetaceo nella catena alimentare del nostro pianeta. A conferma di quanto creda in questo lavoro, Bernard ha anche deciso, per la prima volta, di pubblicare l’album anche in vinile. Ma torniamo al nostro cd che è composto da sei tracce (l’ultima “Epilogue” assente su LP) per quarantaquattro minuti di durata. L’opera si apre con “Loomings” (dieci minuti, la sua lunghezza) con musiche e testi di Alessandro Di Benedetti. L’introduzione è soffusa, poi il brano si sviluppa in modo convincente supportato dalla voce di Michael Trew (dei Moon Letters, band statunitense in notevole e meritata ascesa… Veruno?), qualche spunto new prog delle tastiere, la chitarra melodica di Carmine Capasso, una solida sezione ritmica solida (lo stesso Bernard e Riccardo Spilli) ed interventi mirati del flauto di Giovanni Mazzotti. Inizio davvero col botto. Rimane invariata solo in Bernard e Spilli la line-up per “The quarter deck”: abbiamo ora alle tastiere Octavio Stampalia (musiche e testi), Tony Riveryman alla chitarra elettrica, Steve Unruh al violino e Marcelo Ezcura alla voce. Brano brillante con un refrain che rimane subito in mente e sound che spazia tra new e… old prog… bello! Si prosegue con “Fastfish, Loosefish”. Keyboards appannaggio di Linus Kåse (musica e testi, sax e voce), alla batteria Erik Hammarström, alla chitarra elettrica Johan Öijen, a quella acustica Sonja Käse ed alla voce Steve Unruh. Molto belle le melodie e le linee vocali che rimandano un poco ai Genesis post Gabriel (ma prima della svolta pop, of course). Ci sono poi due brani di oltre dieci minuti. Il primo, “The quadrant”, vede il ritorno di Trew al microfono e di Mazzotti al flauto. Bernard, stavolta, è accompagnato da Kimmo Pörsti alla batteria, mentre Mimmo Ferri (musica e liriche) è impegnato alla chitarra ed alle tastiere. Malgrado ogni brano presenti autori (e talvolta esecutori) diversi, la continuità musicale è garantita da un approccio simile, con grande attenzione alle melodie ed una notevole raffinatezza strumentale che, nel brano specifico, si evidenziano nell’ottimo uso del flauto e nei timbri delle tastiere. Il secondo è “The chase” con musica e testi di Marco Grieco (tastiere) che vede all’opera Unruh alla voce, Riveryman alla chitarra elettrica, oltre a Bernard ed Hammarström a completare l’organico. Si tratta, probabilmente, del pezzo più “spigoloso” e roccioso, oltre che del più drammatico ed enfatico, come richiesto dalla trama. “Epilogue” (solo su cd), infine, comprende tre minuti di basso (Bernard) e pianoforte a coda di David Myers.
Si chiude così quest’altro sforzo solista del bassista italiano (di stanza da anni in Finlandia) che non temiamo di annoverare tra i migliori proposti da Marco, sia quando sotto il nome dei SoP, sia quando in compagnia del solo Pörsti. Come detto, c’è poi il cd bonus che comprende otto cover di brani che hanno contribuito alla formazione musicale del nostro bassman; queste spaziano dai Rush, a Zappa, dai Led Zeppelin ai Boston, da Al Di Meola agli U.K senza dimenticare la PFM (il gruppo italiano più famoso all’estero), con una “Impressioni di settembre” stravolta, ma comunque “rispettata” dalla visione di Marco Grieco & C. Last, but not least, una novità succulenta: la “band” ha deciso di intraprendere nel 2026 una serie di concerti (il primo sarà proprio a Veruno nel settembre del prossimo anno)... Purtroppo non tutti i principali attori saranno protagonisti sul palco (presenti Kimmo Pörsti e Marco Grieco, comunque), ma una ghiotta occasione da non perdere.

Valentino Butti

FLAME DREAM-Elements -Vertigo -1979 (autoprod. 2025) -SVI -Valentino Butti
FLAME DREAM Elements Vertigo 1979 (autoprod. 2025) SVI

“Elements”, secondo album degli svizzeri Flame Dream, uscito originariamente a cavallo tra 1979 e 1980, è anche il secondo lavoro che la band pubblica ufficialmente in formato cd, dopo “Out in the dark” di qualche mese fa. Il gruppo, dopo “Calatea”, dell’anno precedente, aveva perso il chitarrista (e vocalist) Urs Waldispühl, ed era ora un quartetto: Roland Ruckstuhl (tastiere), Peter Wolf (voce, flauto, sax, oboe), Urs Hochuli (basso e voce) e Peter Furrer (batteria). “Elements” è, di fatto, un concept incentrato sui quattro elementi (fuoco, acqua, terra ed aria) e presenta liriche tratte da opere di Edmund Spenser, Ralph Waldo Emerson, John Davies mentre un testo è di Peter Wolf. L’assenza della chitarra amplifica, ovviamente, le soluzioni che vedono le tastiere assolute protagoniste anche se il flauto e il sax offrono opzioni alternative ed altrettanto riuscite. Le influenze sono le solite: i Genesis, gli Yes, i Gentle Giant ma, bisogna comunque riconoscere che il sound risulta sempre abbastanza originale, facilmente riconoscibile, con ottime melodie e “fresco” in un periodo in cui il prog era entrato nel libro nero di media e pubblico. Appare, dunque, paradossale e certamente coraggiosa la scelta stilistica di questi quattro ragazzi (all’epoca…), così controcorrente, malgrado qualche anticipazione “new wave” del sound potesse comunque fare presa sulle nuove generazioni. “Sun fire” apre l’album in un florilegio di tastiere, con le ritmiche che rimandano agli Yes mediati (in modo certamente inconsapevole) con quanto proposto dai (molto) meno conosciuti England o Easter Island, ma anche dal secondo album degli U.K. (le tastiere…). “Sea monsters” non disdegna soluzioni vocali a là Gentle Giant, mentre dal punto di vista strumentale più Genesis (“Wind & Wuthering”) che Yes stavolta.”Earth song” comincia in pieno Shulman, Shulman & Minnear style (“Design”?), con il cantato “sghembo” di Wolf a ricordare quello di Derek e le soluzioni ritmiche complesse. Una spruzzatina di Canterbury e di jazz rock ed il gioco è fatto…bene… Con “A poem of dancing” tutti questi rimandi emergono in modo ancora più convincente: soluzioni corali di prim’ordine (facciamo gli “originali”... Yezda Urfa…), il flauto ad evocare atmosfere bucoliche, suoni di tastiere di gran gusto, basso possente. Inspiegabile, o quasi, il minuto e mezzo conclusivo di “Savate? Nose!” per soli sax e tastiere. Si chiude così un ottimo album di prog sinfonico, tra i migliori usciti alla fine degli anni settanta/ inizio ottanta e che finalmente è fruibile in formato cd per la gioia degli appassionati e di coloro che non possono permettersi il long playing originale e che (magari)avrebbero preferito pure una ristampa del vinile… ma accontentiamoci.

Valentino Butti

THE FLOWER KINGS-Love -Inside Out -2025 -SVE -Peppe Di Spirito
THE FLOWER KINGS Love Inside Out 2025 SVE

Rimessa in moto la macchina Flower Kings, Roine Stolt continua a farla viaggiare senza troppe soste. Magari non viene mostrata quella prolificità che caratterizzava i primi anni di attività, ma dal 2019 questo è il quinto album in studio, ai quali va aggiunto anche un live. Magari possono variare gli interpreti, eppure stilisticamente il sound a cui ci hanno abituato i “Fiori” non cambia. In realtà, la line-up al momento sembra essersi assestata, visto che al fianco del chitarrista troviamo nuovamente Mirko De Maio alla batteria e alle percussioni, Lalle Larsson alle tastiere, Hasse Fröberg alla voce, e Michael Stolt al basso.
Il nuovo album “Love”, quindi, non porta vere novità e, di conseguenza, non fa che dare conferme. Conferme di un prog sinfonico/romantico solare e pieno di aggraziate melodie. Conferme di una professionalità che non può essere messa in discussione. Conferme di una produzione limpida e pulita, perfetta per la musica proposta. Conferme di uno Stolt sempre fertile a livello compositivo. Conferme che se si cerca un prog intricato e avventuroso non è certo ai Flower Kings che bisogna guardare. Ma in fin dei conti ai Flower Kings nessuno chiede atti di coraggio. La band continua a mantenere uno zoccolo duro di fan che non aspettano altro di sentire nuovo materiale che non si discosti troppo dalle coordinate mostrate in trent’anni di carriera.
“Love” si protrae per oltre settanta minuti ed offre dodici nuovi brani dalle durate non eccessive (solo due superano i dieci minuti) che accontentano i fan ancora una volta. Come spesso accade, i momenti migliori sono rappresentati proprio dai pezzi che si prolungano di più, ovvero “The elder” e la conclusiva “Considerations”, nelle quali i musicisti si possono muovere tra cambi di tempo e di umore senza perdere una gradevolezza melodica che di base non manca mai. Da segnalare anche un paio di brevi strumentali di una certa pregevolezza: i due minuti di “World spinning”, tra raffinatezze genesisiane e attimi di giocosità; l’effervescenza di “Kaiser razor” con le sue brillanti combinazioni tra chitarra e tastiere. Il resto scorre, facilmente, con fluidità, senza intoppi, senza sobbalzi, tra ballad leggiadre, le puntuali derivazioni Yes e quell’effetto “vintage ma non troppo” portato avanti fin dagli esordi. Il marchio di fabbrica è consolidato e non ci si smuove.
L’impressione finale è che questa nuova fase di uno Stolt molto produttivo comincia a mostrare qualche leggero segno di cedimento. “Love” è ancora un buon disco, grazie all’esperienza e al mestiere messi in gioco, ma comincia ad avvertirsi una sorta di eccessivo appiattimento della proposta. Insomma, l’ascolto risulta anche soddisfacente, ma dopo, più che un riascolto, è maggiore la voglia di dare una ripassata a “Retropolis” e “Stardust we are”.

Peppe Di Spirito

HORA PRIMA-Hora prima -Ma.Ra.Cash Records -2025 -ITA -Peppe Di Spirito
HORA PRIMA Hora prima Ma.Ra.Cash Records 2025 ITA

Mi permetto di iniziare questa recensione con un’esperienza personale, visto che, da habitué del festival di Veruno, ero presente all’esibizione pomeridiana di questa band nel 2024 al Forum dove si tengono alcuni spettacoli prima dei concerti al campo sportivo, sede del palco principale. La performance fu splendida, tanto è vero che ci fu una standing ovation alla fine, cosa tutt’altro che usuale in quel contesto. Per gli Hora Prima, fu l’occasione di presentare in anteprima alcuni brani del secondo album, uscito poi quest’anno. Di conseguenza, per il sottoscritto, le aspettative erano alte. Molto alte. Dopo numerosi ascolti posso dire che sono state parzialmente ripagate. Il disco è davvero bello, ma l’esplosione definitiva che mi aspettavo non c’è stata.
Ma veniamo ai contenuti di “Hora Prima”, che presenta sette brani per un totale di quasi trentanove minuti di musica. L’apertura è affidata a “Uomo ancestrale (primordio)”, che ci porta subito nei territori calorosi del più classico rock progressivo italiano, con una partenza pastorale, tra flauto, chitarra acustica e violino, con piacevoli melodie vocali; dopo quasi un minuto e mezzo la sezione ritmica e la strumentazione elettrica danno una scossa ed inizia il solito saliscendi di cambi di tempo e di intensità, con spunti sinfonici. Un primo paragone potrebbe essere fatto con PFM, Quella Vecchia Locanda e Alphataurus. Stesse coordinate per “Intelligenza artificiale”, con tempi composti, bella alternanza tra ruvidezze e melodie, per una costruzione che permette di mostrare bene le capacità tecniche dei musicisti. Poi arriva un vero gioiello, “Deus ex machina”, strumentale con una prima parte di circa due minuti elettronica e sperimentale, che poi sfuma per far partire un crescendo che regala emozioni grazie ad un riff di fuoco, un groove assolutamente trascinante e vaghe spinte jazz-rock. “Delirium omnibus” è un brano cantato in inglese vagamente funk, ma che non perde l’anima prog nei momenti strumentali, mentre “Diari dalla quarta dimensione” riporta ad una dimensione più mediterranea, tra hard rock reminiscente del Biglietto per l’Inferno, cavalcate à la PFM e passaggi più melodici. C’è poi “Al Khwarizmi”, altro ottimo strumentale, molto dinamico, nel quale i musicisti possono mostrare le loro doti. Il finale è affidato ad una riuscitissima cover di “Le Roi Soleil” dei New Trolls, perfettamente eseguita con tutti i passaggi elaborati, comprese le particolari armonie vocali.
Rispetto all’esordio “L’uomo delle genti”, c’è stata qualche variazione nella line-up e per l’occasione gli Hora Prima si presentano con Francesco Bux (batteria, sintetizzatore, voce), Andrea Catalano (voce), Domenico De Zio (chitarre), Roberto Di Lernia (basso, voce) e Roberto Gomes (tastiere, voce), più vari ospiti, al basso, al flauto, al contrabasso, al trombone e al violino. E siamo al cospetto di una formazione di grandissima qualità, con strumentisti di prim’ordine che dimostrano di essere capaci di suonare con un’ottima tecnica al servizio delle composizioni. Allo stesso modo, anche il cantante Catalano mostra ampiamente di sapere il fatto suo sfoderando una prova rimarchevole. Ma queste sono cose che non sorprendono chi ha avuto la fortuna e il piacere di vederli dal vivo. Gli Hora Prima sono un gruppo a cui non manca proprio nulla per diventare grandissimo ed essere una delle punte di diamante del prog italiano degli anni ’20. Li aspettiamo alla terza prova.

Peppe Di Spirito

MACIEJ MELLER-Hidden river - Noise tracks vol. 1 -Farna Records -2024 -POL -Peppe Di Spirito
MACIEJ MELLER Hidden river - Noise tracks vol. 1 Farna Records 2024 POL

Con “Hidden river” Maciej Meller inizia una nuova avventura. Il chitarrista polacco noto per la militanza nei Quidam e nei Riverside con quest’album va ad esplorare le potenzialità della chitarra elettrica in questi anni ‘20. D’altronde, il sottotitolo “Noise tracks” è già indicativo di questo nuovo percorso. Niente cantato, niente sezione ritmica, niente riff rock, niente solos epici. Meller è unico protagonista del lavoro; lui e la sua chitarra con una serie di effetti che vanno a formare sei tracce strumentali. Il linguaggio sonoro proposto si fa più astratto; in genere c’è una base d’atmosfera, con tratti ambient e forti sensazioni dark, su cui la sei corde va a disegnare melodie particolari, sfuggenti, che non danno certezze. Tra echi di frippertronics, paesaggi sonori cari a Brian Eno, noise, attimi di silenzio ed una tensione costante, Meller sembra essere arrivato ad una maturità artistica totale. È una proposta che non prevede virtuosismi; nessuna ostentazione di tecnica, solo il desiderio di comunicare con forme nuove e, di conseguenza, di regalare emozioni in maniera diversa dal solito. È musica in cui immergersi con attenzione e concentrazione, da non ascoltare distrattamente, ma da seguire in tutte le sue sfumature. Solo in questo modo si possono assimilare al meglio i suoni e le suggestioni che emanano, il tempo perennemente lento, gli attimi di quiete minacciosa, i riverberi, i feedback vagamente floydiani (periodo “A saucerful of secrets” – “Ummagumma”). E così facendo Meller ci può ipnotizzare.
I titoli dei brani, inoltre, sono molto evocativi: “Forest”, “Lake”, “Frozen gield”, “Storm”, “Fog”, “Hidden river” richiamano una natura che può essere complessa nelle fasi invernali, ma che non perde mai il suo fascino e la sua forza. Ed il libretto pieno di belle foto è un perfetto accompagnamento alle tinte fosche dell’opera. L’album, così, con la sua austerità e le sue venature diafane, riesce a trasmettere un intimismo davvero molto particolare.
Meller non finisce di stupire e stavolta, in totale solitudine, fa un colpo che spiazza con questo disco che di sicuro non è per tutti i palati, ma che è sincero, temerario e chiaro parto di un musicista ammirevole che vuole portare avanti la sua arte senza alcun compromesso.

Peppe Di Spirito

NOIBLA-Under no illusions -Lynx Music -2025 -POL -Peppe Di Spirito
NOIBLA Under no illusions Lynx Music 2025 POL

Tornano a farsi sentire per la seconda prova discografica, dopo ben sette anni, i Noibla, entità nata dalle ceneri degli Albion (chissà cosa esce leggendo i due nomi al contrario…). Se quando avevano esordito avevano annunciato che i due gruppi avrebbero continuato entrambi la loro attività, oggi sembra che gli Albion non esistano più. Così, il trio formato da Katarzyna Sobkowicz-Malec (chitarra acustica e classica), da Krzystof Malec (tastiere e programmazione) e da Leszek Jarzebowski (chitarra) si ripresenta con questo “Under no illusions” per dare nuova linfa al progetto Noibla. Rispetto al lavoro precedente non vengono utilizzati strumenti a fiato; inoltre non c’è una vera sezione ritmica, visto che si è puntato sulla programmazione elettronica per le parti di basso e batteria. I più attenti, inoltre, avranno già notato che non abbiamo indicato la Soblowicz-Malec alle parti vocali ed è questa la sorpresa principale, visto che è entrata nel gruppo la cantante Nika Redhart. Altra new-entry è un altro chitarrista, che risponde al nome di Piotr Galinski. Inevitabile, con queste premesse, che ci siano delle differenze rispetto a quanto abbiamo già ascoltato in passato con entrambi i nomi.
L’album è stato principalmente composto durante il periodo della pandemia ed è una sorta di concept con tematiche ormai abbastanza abusate legate ai problemi di quei giorni difficili per tutti.
Una breve “Intro” dalle atmosfere floydiane è il preludio ad una serie di brani che non perdono quella vena melodica che caratterizzava il debutto “Hesitation”, ma già dalla seconda traccia “It’s making me alive” si capisce che i Noblia per l’occasione puntano ad un indurimento del sound. Nulla che li faccia avvicinare al metal, ma se l’impianto tastieristico crea scenari sonori pregni di romanticismo, la chitarra elettrica si fa più ruvida, con riff graffianti e timbri abrasivi. Le dinamiche sono sempre ben costruite e la Redhart sforna un’ottima prova; qualche venatura pop continua a presentarsi e le sonorità possono portare alla mente band capaci di ammaliare con un prog semplice, ma efficace, come i Quidam, i White Willow, i Paatos e i Solstice. A queste peculiarità la band polacca prova a modernizzare i suoni per rendere la propria musica poco nostalgica e più moderna, un po’ sulla scia di certe contaminazioni proposte da Steven Wilson, con il giusto pizzico di elettronica non invadente. Il risultato è solo parzialmente convincente. Gli otto pezzi che seguono l’incipit, infatti, pur senza vere cadute di tono, viaggiano tra alti e bassi. I momenti più marcatamente prog sono sicuramente ben fatti: “They control” è pomposa al punto giusto e piena di cambi di tempo e di atmosfera; “True” è un pregevole episodio di rock romantico.; la conclusiva “Good for me” e prettamente di derivazione new-prog. La programmazione è sicuramente molto buona, ma forse una sezione ritmica “vera” avrebbe conferito maggiore calore. Nel complesso l’album è discreto, si mantiene una gradevolezza di fondo per tutti i quarantadue minuti, grazie a quella espressività melodica con cui i Noibla sanno giocare bene, ma siamo lontani da qualcosa che faccia gridare al miracolo. Di sicuro, un elemento che fa innalzare la media generale è la citata performance della Redhart; davvero bravissima e versatile, con la sua capacità di alternare interpretazioni docili e suadenti ed altre più decise e potenti.

Peppe Di Spirito

T.A.L.L.-T.A.L.L. -Roth Handle -2025 -SVE -Peppe Di Spirito
T.A.L.L. T.A.L.L. Roth Handle 2025 SVE

Davvero non si contano più i progetti che vedono coinvolto Mattias Olsson; è diventato impossibile stare dietro a tutto ciò in cui è presente la sua mano. Vi segnaliamo comunque volentieri questo nuovo disco che vede l’esordio dei T.A.L.L., formazione con la quale il batterista svedese unisce le forze con musicisti degli Øresund Space Collective e più precisamente con Mogens Deenfort ai sintetizzatori, Jiri Jon Hjorth al basso e Jonathan Segel alle chitarre. Il debutto della band è stato registrato in cinque giorni nel febbraio del 2023, ma solo dopo due anni è arrivata la pubblicazione da parte della Roth Handle. Contiene cinque composizioni, tutte di ampia durata; due superano i sei e i sette minuti, le altre tre vanno ben oltre i quindici. Il pezzo con il minutaggio più elevato è quello di apertura, “Fattening”, perfetto biglietto da visita per i T.A.L.L., che si cimentano subito in uno space-rock fluttuante e dalle melodie stravaganti, al punto che si intravede un sapore esotico da world music. L’andamento controllato, i ritmi ipnotici, i riff ossessivi, le atmosfere indolenti e un po’ a tinte fosche che caratterizzano questa apertura le ritroveremo in continuazione durante l’ascolto, cosa che rende l’album molto omogeneo. Poi magari ci possono essere momenti più psichedelici, riferimenti ai Pink Floyd e agli Ozric Tentacles, deviazioni verso i corrieri cosmici, qualche passaggio in cui la chitarra si fa più tagliente, ma nel complesso si denota una compattezza che non viene mai meno. Il disco dura poco più di un’ora, ma scorre bene ed è molto coinvolgente, anche se è praticamente strumentale. L’unica eccezione è rappresentata dal brano “Irwin”, che vede la partecipazione della cantante e clarinettista Francisca Marchan, ma nella sua prova si esprime con vocalizzi suadenti, al punto che si può parlare di uno di quei casi in cui la voce diventa strumento aggiunto. Per di più, questo pezzo, con i suoi elementi cinematici e con il timbro del mellotron, può portare alla mente quanto fatto dai Morte Macabre in “Symphonic Holocaust” nel 1998. Altro ospite è Oskar Forsberg che presta il suo sassofono a “Orwell”, traccia in cui lo space-rock di base si incontra con il jazz-rock e con sibili crimsoniani. Non originalissimo, ma carico di un groove vibrante e che coinvolge, questo esordio è sicuramente valido col suo space-rock pronto ad allargarsi in più direzioni.

Peppe Di Spirito

ALESSIO TRAPELLA-Icaro -autoprod. -2025 -ITA -Peppe Di Spirito
ALESSIO TRAPELLA Icaro autoprod. 2025 ITA

Alessio Trapella è un musicista non proprio di primo pelo, visto che se si spulcia il suo curriculum si trovano esperienze con nomi molto importanti del prog italiano, quali Orme, Aldo Tagliapietra e UT New Trolls. Dopo il debutto “La ricerca dell’imperfezione”, uscito nel 2022, ecco che dopo tre anni arriva il secondo lavoro intitolato “Icaro”. Come il titolo già lascia presagire, siamo di fronte ad un concept album che prende spunto dalla celebre figura mitologica per raccontare una storia dalle tematiche fantascientifiche, ma legate strettamente a temi sempre di attualità tra dipendenza e autodistruzione.
La narrazione sonora avviene tramite sei brani, per un totale di poco più di trentuno minuti. “Icaro” è un incipit suggestivo, che parte con temi classicheggianti per poi esplodere in un classico rock sinfonico all’italiana, in cui le tastiere spingono verso un sound solenne, mentre con le parti vocali si presta maggiore attenzione alla melodia. Trapella è subito protagonista, visto che si esibisce al canto, al basso e alle tastiere; i suoi compagni di avventura, Luca Chiari alle chitarre e Filippo Dallamagnana alla batteria, si fanno comunque valere ed il loro contributo si integra alla perfezione con le caratteristiche appena descritte. Con “L’uomo delle stelle” si vira verso un pop-rock più diretto, in cui si incontrano l’eleganza delle parti di tastiera con una certa ruvidezza della chitarra elettrica, soprattutto in un’intrigante coda strumentale. Ne “Il gesto” si continua con l’immediatezza, ma si gioca con una sorta di funk-pop-prog, anche grazie all’intervento del sax e ad un groove di base molto frizzante. Arriva il turno della suggestiva strumentale “Anapneo”, che, tra continui cambi di tempo e di atmosfera, sembra raccogliere bene l’eredità della PFM e dei New Trolls più abrasivi. Si avverte ancora l’ombra dei New Trolls in “Giù il sipario”, quelli un po’ più melodici, mentre la conclusiva “Oltre il manifesto blu” porta a termine il cd con un finale sinfonico stavolta più tra Orme e PFM.
Avrete già capito che siamo al cospetto di un disco che riprende certe soluzioni del glorioso passato del prog italiano, abbinandole ad un discreto senso per la melodia. Nulla di nuovo, ma sicuramente il buon gusto e la raffinatezza con cui il tutto è proposto da Trapella lasciano sensazioni favorevoli.

Peppe Di Spirito