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OPETH Ghost reveries Roadrunner 2005 SVE

Dopo la parentesi poetica di "Damnation" gli Opeth tornano a pestare la doppia cassa, ad accendere il distorsore e per Åkerfeldt è nuovamente luna piena: il suo growl viene liberato in maniera devastante già nei primissimi secondi della traccia di apertura "Ghost of Perdition". E così gli Opeth ci vogliono ricordare che la loro dimora si colloca direttamente nel girone infernale dei gruppi Death. Il discorso comunque non è così semplice perché "Damnation" e quanto c'è mai stato di poetico nella musica di questa band riaffiora con forza fra i riff feroci e compatti, come se la purezza delle lacrime giungesse a dilavare un volto sfigurato dal sangue. Quando meno te lo aspetti sopraggiungono delicatissimi arpeggi acustici, una voce suadentissima e malinconica e pennellate di Mellotron (suonato stavolta dal nuovo innesto Per Wiberg), per poi precipitare nuovamente senza preavviso all'inferno. A volte i due aspetti si sovrappongono e capita che suoni potenti ed aggressivi siano solcati da un cantato poetico ed ispirato oppure succede che musica leggiadra sia tormentata da elementi sonori vigorosi e minacciosi. "The Baying of the Hounds" è quasi inascoltabile in apertura, con il suo altissimo coefficiente di distorsione; col progredire dei minuti arriviamo a sequenze dal sound vigoroso ed abrasivo, ma comunque strutturate in maniera complessa, per poi naufragare dolcemente in un intermezzo oscuro ed ipnotico ed essere nuovamente rapiti da un vento elettrico di note turbinanti. Sicuramente i nostri svedesi dominano l'emotività dell'ascoltatore tenendola in bilico fra stati d'animo contrapposti e giocano tutto sui contrasti estremi. "Beneath the Mire" si apre con un riff che può benissimo rappresentare la simbiosi fra generi diametralmente opposti: sulla base di tastiere oscure si sovrappongono strappi di chitarre laceranti con un effetto particolarissimo. Poi sopraggiunge il solito growl e la musica sullo sfondo diviene pressoché inascoltabile ma basta un secondo di silenzio e tutto viene nuovamente mescolato: la voce di Mikael ritorna terrena e alleggerisce la tensione dei riff claustrofobici... un altro secondo di silenzio ed improvvisamente tutto è sereno: sembra quasi di ascoltare i Landberk... ma tutto è transitorio e precario in questo album. Accanto a 5 lunghe tracce Prog-Death (di cui 4 superano i 10 minuti), dominate da contrasti e forti emozioni, vengono collocate 3 tracce brevi di sollievo che per tutta la loro durata si mantengono su toni pacati. "Atonement", una di queste, è dominata da umori psichedelici e percussioni tradizionali. "Hours of Wealth" è costruita su arpeggi struggenti con Mellotron malinconico in evidenza e la finale "Isolation Years" è quasi una ballad Floydiana. Insomma, se vi è piaciuto "Deliverance" questo è sicuramente un passo obbligato ma se conoscete solo "Damnation" fate attenzione perché gli elementi melodici sono ben rappresentati ma non bastano sicuramente a dare sollievo dalle torture inflitte dal tagliente metallo sporco di zolfo.

 

Jessica Attene

Collegamenti ad altre recensioni

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