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OPETH Pale communion Roadrunner Records 2014 SVE

Curiosa la storia degli Opeth, capaci di reinventarsi più volte in una carriera iniziata con apprezzati album di metal estremo e tecnico e in grado di catturare l’interesse degli appassionati prog con quel “Damnation” che mise momentaneamente da parte la voce growl indirizzandosi su suggestioni malinconiche ed elettroacustiche. Dopo “Heritage”, uscito nel 2011 e che segnava una svolta ancora più decisa verso il mondo del progressive rock, c’era molta attesa per il nuovo lavoro pubblicato nel 2014 e intitolato “Pale communion”. E’ facile ipotizzare che i contatti tra Mikael Åkerfeldt e Steven Wilson (per l’occasione impegnato al missaggio e alle backing vocals) abbiano influito non poco sulle scelte artistiche del primo e questo nuovo passo della band svedese segna un ulteriore immersione nelle dimensioni sonore che tanto ci sono care. Il taglio con il passato è diventato ormai netto e la direzione intrapresa non lascia dubbi sui percorsi che si intendono seguire. Si comincia a studiare troppo a tavolino? Forse, ma siamo di fronte ad uno di quei casi in cui forma e sostanza vanno di pari passo, per merito di composizioni articolate e, al contempo, pronte a sprigionare carica, feeling e tensione emotiva. La traccia di apertura è già significativa e sembra messa lì proprio a far capire che gli Opeth vogliono immergersi in tutto e per tutto in quel prog fatto di scattanti combinazioni strumentali, cambi di tempo e di atmosfera: “Eternal rains will come”, così, è un rock sinfonico sparato con tastiere a comandare a tutta forza, chiassoso, perfino ruffiano e un po’ sulla scia di proposte Inside Out come Spock’s Beard e Transatlantic. Nel secondo pezzo “Cusp of eternity” la band indurisce il suono e si avvicina ad un intelligente prog metal. Terzo episodio del disco, dal titolo “Moon above, Sun below”: qui gli Opeth, in quasi undici minuti, paiono giocare a fare gli Steven Wilson disegnando un brano che sembra ricalcare un po’ certe linee degli ultimi album solisti dell’artista inglese. Dopo questo trittico iniziale, quasi sorta di introduzione che spiega dove vogliono andare Åkerfeldt e compagni oggi (pare quasi che ci dicano “ecco, a fare certe cose siamo bravi anche noi”), comincia poi una ricerca in cui sfoggiano maggiore personalità e maturità. Dapprima con “Elysian woes”, tassello intimista e delicatissimo soprattutto per merito degli arpeggi di chitarre acustiche, poi con un meraviglioso brano strumentale e magnetico intitolato “Goblin”, dai ritmi sincopati e davvero difficile da inquadrare, con il suo fascino sfuggente sprigionato dalle atmosfere suggestive, nate da trame complesse e accostamenti tutt’altro che azzardati tra prog sinfonico e tentazioni jazz-rock. Che “Pale communion” abbia dinamiche abbastanza imprevedibili lo dimostrano anche “River”, in cui vengono scomodati i migliori Porcupine Tree nella prima parte, mentre la seconda è piena di acrobazie strumentali condite dall’eco del Mellotron, e “Voice of treason”, che alterna passaggi ipnotici ed altri più robusti. E si arriva al meraviglioso finale. “Faith in others” è un fantastico excursus nelle sonorità dei primissimi King Crimson. Un rock sinfonico solenne e malinconico. Costruito su melodie di alta scuola, prendendo “Epitaph” e portandola ai nostri giorni, con cambi di atmosfera e di sound e disegnando con tinte fosche, un po’ come fece anche Steve Hackett sul finire degli anni ’90 con la splendida “In memoriam” contenuta nel suo “Darktown”. Il paradosso è che, nonostante una qualità molto elevata, questo disco, esattamente come il suo predecessore, rischia di non avere gli estimatori che meriterebbe. Innanzitutto è troppo diverso dagli esordi degli Opeth per i tanti che vedono la band principalmente come paladina del death-black metal degli anni ’90. Da un’altra angolazione, invece, sono sicuro che tantissimi “puristi” del prog non possono “perdonare” questo passato e i legami con un personaggio abbastanza antipatico e con troppa visibilità come Steven Wilson. Il consiglio che mi permetto di dare è quello di ascoltare “Pale communion” senza pensare troppo al nome che è scritto in copertina e con un approccio scevro da qualsiasi tipo di preconcetto. Solo così si può apprezzare in pieno un album magari non originale, ma sicuramente bellissimo, curato in ogni minimo dettaglio ed ennesima tappa sorprendente di un gruppo capace di trasformarsi grazie ad un percorso evolutivo intrigante e da non guardare con eccessivi pregiudizi.



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Peppe Di Spirito

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