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QWAARN |
Aberrations |
Unicorn Digital |
2007 |
CAN |
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Avevamo lasciato i canadesi Qwaarn (francofoni di nascita, ma anglofoni su disco!) tre anni or sono alle prese con un prog sinfonico di chiara scuola Genesis; li ritroviamo con una formazione rimaneggiata ma sempre guidata dal batterista François Bernatchez, fulcro del progetto. A dire il vero, le informazioni stampate sul booklet creano un po’ di confusione, distinguendo tra “performing musicians” (con tanto di fotografia) e “studio musicians”… quale delle due line-up suona effettivamente nelle tracce di “Aberrations”? Prendendo per buona la formazione “di studio”, ne deduciamo che il nuovo cantante Didier Berthuit sia anche il novello tastierista e che l’altro punto fermo della formazione sia il chitarrista Martin Bleau, apparentemente invaghito tanto di Hackett quanto di Oldfield.
La presentazione del nuovo lavoro parla di una sterzata dal prog classico ad un sibillino genere denominato… pop-gressive (questa ci mancava!!!), influenzato da esperienze disparate come la psichedelia dei sixties, David Bowie e addirittura i Tears for Fears. Non mi sento di condividere questa opinione: certamente le intenzioni eclettiche si notano nel corso dell’album, ma questo si presenta meno strampalato del previsto, pur prendendo le distanze dalle ovvie influenze dell’esordio.
Piuttosto che virare verso il pop, si notano tendenze new-prog anni ’80 e ’90 (Shadowland, Final Conflict…) che a dire il vero non fanno gridare al miracolo e non riescono a vivacizzare un ascolto eccessivamente “piatto” e avaro di emozioni. Mentre la chitarra riesce a tessere trame interessanti, suonando piacevolmente liquida, purtroppo non si può dire lo stesso delle tastiere: le timbriche usate a volte risultano sintetiche e irritanti (come nella lunga “Did you say salmon?”). La band ha puntato molto sulle armonie vocali e ciò e particolamente evidente proprio nel brano citato, tuttavia la voce solista di Berthuit (autore anche degli arrangiamenti) risulta un po’ monocorde e non si adatta granché alle tendenze teatrali/recitative che emergono a tratti (cfr. “The high muckity-mucks” o l’eccentrica sezione operistica di “Fore”), meglio in contesti melodici come la ballata acustica “It will be fine”.
Un discorso a parte lo merita “Talking to Flowers”, felice episodio di matrice vagamente beatlesiana con tanto di sitar e tabla, che si trasforma nel finale in una sorta di omaggio involontario ai Twelfth Night di Geoff Mann.
Onestamente, non mi sento di dare un giudizio definitivo sulla band, che al secondo lavoro si dimostra ancora incerta sulla direzione da intraprendere; le capacità ci sono ma non sempre sono sfruttate al meglio, il songwriting non raggiunge mai livelli di eccellenza ed alcuni riempitivi sembrano essere disgraziatamente finiti nell’album, inficiandone parecchio il valore. Date le premesse, non posso dire di attendere la terza prova dei Qwaarn con trepidazione, eppure sarei felice di constatarne la raggiunta maturità artistica.
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Mauro Ranchicchio
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