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FABRICE BONY |
Between day |
autoprod. |
2008 |
FRA |
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Quello che vi presento è il disco di esordio di un musicista che ha scelto la batteria come il suo strumento principale, ma che è in grado di suonare un po' di tutto, come qui dimostrato, dalla chitarra, acustica ed elettrica, alle tastiere. Mi rendo conto che una simile presentazione non fa pensare a nulla di particolarmente allettante ed in generale è difficile dare fiducia ad un nome sconosciuto e che si autoproduce un album che suona completamente da solo. Se da una parte esperienze analoghe sembrano rafforzare questi timori, dall'altra mi permetto di dirvi, per una volta, di non pensare a questa specie di teorema o pregiudizio e di provare, se vi sentirete ispirati in qualche modo dalle parole spese in questa recensione, ad ascoltare questo album in maniera rilassata e con la mente libera. Per aggiungere un po' di zucchero a questa proposta posso dirvi che Fabrice non è una persona estranea al nostro piccolo mondo Prog: scavando fra le sue note biografiche lo ritroviamo infatti all'opera nella tournée del 1993 degli Ange (quella di "Les larmes du Dalaï-Lama", immortalata in parte nell'album "Pêle-mêle" del 2003, pubblicato solo per il fan club). Cosa ci dovrebbe attirare di questo album, dalla copertina così modesta ed anonima? Prima di tutto l'eleganza dei suoni, la semplicità delle composizioni, in cui si fondono ambientazioni quasi new age ed elettroniche a temi sinfonici e che mirano alla ricerca di sensazioni auditive su cui la mente dell'ascoltatore possa fissarsi ed indugiare. Quelli che ascoltiamo sono temi musicali per l'anima, vibrazioni che raggiungono in qualche maniera il nostro inconscio, producendo un effetto piacevolmente benefico. Così il nostro spirito sembra quasi aleggiare fra le note di "Introspection" che sembrano quasi espandersi e contrarsi ciclicamente seguendo il ritmo del respiro, con i bellissimi archi synth ed il piano, semplice ed elegante, che ci guida in una specie di mosaico le cui tessere sembrano cadute da dischi di Camel, Mike Oldfield e Wim Mertens. I momenti minimalisti sfociano comunque sempre in intuizioni sinfoniche, con suggestioni che potrebbero ricollegarci vagamente ai Pulsar (come in "Four birds as witnesses") e con un ruolo della batteria, per fortuna autentica, sempre ben ponderato. Fra le tracce da segnalare mi piace citare anche la title track, una traccia per piano e chitarra acustica che sembra ispirarsi al già citato Mertens. Avevamo bisogno proprio di un disco così, che miscela elementi familiari e piacevoli in maniera se vogliamo neanche troppo creativa? La risposta è sì, c'è bisogno di dischi che facciano leva su melodie semplici e sicure, elaborate con gusto, sensibilità ed un pizzico di personalità, di canzoni che in effetti ci aiutino a sognare, scrollandoci di dosso ansie legate a soluzioni troppo complicate. Fabrice Bony riesce onestamente a regalarvi questo e magari vi ritroverete a cercare con lo sguardo le stelle nell'ampio cielo notturno, ispirati dall'ascolto di "Call of the African constellation".
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Jessica Attene
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