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DIRECTION |
Est |
Unicorn Digital |
2008 |
CAN |
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In un periodo di grande e rinnovata creatività per le fertili terre del Canada francofono, ecco giungere il quarto album di un trio capitanato dal chitarrista/pianista Marco Paradis, autore di una proposta che trae palesemente ispirazione dal glorioso passato progressivo di matrice sinfonica.
Fondato nel 1998 con una formazione quadrangolare, il gruppo naviga per un decennio nei mari dell’autoproduzione, sostenuto dalle locali realtà radiofoniche e dalle pubblicazioni specializzate, dando alla luce gli album “R”, “O” e “13”; approdati finalmente nel porto sicuro della Unicorn, con la prospettiva quindi di una distribuzione internazionale, perdono il bassista (ruolo attualmente ricoperto dal cantante/tastierista Serge Tremblay) ma ripongono tutte le proprie energie nel progetto “Est”, che gode di migliori possibilità tecniche nella registrazione e dell’apporto dell’artista Yves Thibeault per l’artwork di copertina.
La cura riversata nella composizione e nell’esecuzione di queste otto tracce è in effetti piuttosto evidente: i Direction sono in possesso di una vena melodica e di una perizia strumentale che conduce ad ideali accostamenti alle produzioni di Yes, Steve Hackett o – per rimanere in ambito francofono – Mona Lisa o Morse Code; il loro punto di forza sembra essere la capacità di esprimersi in modo sobrio, senza strafare o voler stupire a tutti i costi. Lo stesso purtroppo non mi sento di poter dire riguardo l’espressività della voce del generoso polistrumentista Serge: non si tratta certo di qualcosa legato all’idioma scelto (basti pensare a quanti capolavori nella nostra discografia preferita sono cantati in francese), piuttosto una piattezza di fondo che conferisce un sapore… “amatoriale” al tutto, sminuendo un po’ i frangenti epici (la pur eccellente “Soldat”, il brano più ambizioso del lotto e la drammatica “Naufragé”, che ad un certo punto rischia di trasformarsi in una cover di “Deep in the motherload”, solo una delle numerose citazioni) e risultando spesso e volentieri fuori luogo nell’abbinamento con intrecci strumentali di discreta complessità.
Ecco quindi che l’apertura “Memoire privée” pare voler fondere la maestosità dei Genesis di “Cinema show” con i flash strumentali di scuola Yes; in brani come “La fuite” è il synth a dominare la scena, libero di riversare barocchismi Banksiani su una frizzante base ritmica; in altri (“Capsule”) divide equamente la scena con una chitarra competente ma quasi timida nelle sue incursioni. Non mancano momenti più leggeri imparentati con il pomp-rock di Rush e Saga – tanto per restare in territorio canadese – valga come esempio la scanzonata “Touriste urbain” con il suoi cori e il suo ostinato riff chitarristico.
Nonostante le pecche evidenziate, mi rendo conto di aver apprezzato il disco più di quanto possa risultare da queste poche righe… ma è proprio l’ottima considerazione che mi spinge ad attendermi di più da questi musicisti non più imberbi. Alla prossima, e che sia la volta buona: le premesse ci sono tutte; non è certo mio compito dare questo tipo di consigli, ma aggiungo che sarebbe un peccato rinunciare all’introduzione di un vocalist di ruolo che conferisca maggiore profondità.
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Mauro Ranchicchio
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