|
SIMON STEENSLAND |
Fat again |
AltrOck |
2009 |
SVE |
|
Magari volete solo sapere chi vincerà il Grande Fratello di quest’edizione? Oppure chi sarà il premiato del Festival di Sanremo? Siete alla ricerca spasmodica del disco che vincerà il Grammy Awards? Siete maggiormente interessati a chi vincerà il Nobel per la letteratura? Mi spiace, non posso aiutarvi. Quello che posso fare è indicarvi un gran bel disco di progressive. Un disco di quelli seri, ben pensati e ben realizzati, suonato come si deve e dotato di un excursus progressivo di primordine. Questo “Fat Again” è l’ultima fatica dello svedese Simon Steensland, autore difficilmente inquadrabile se non in quel gergo avanguardistico che sta stretto soprattutto a Steensland stesso. Il linguaggio, forbito, elegante e naturalmente leggibile dell’autore, in effetti, si contrappone alla figura dell’ostinato culture di un’avanguardia tout-court e il suo miscelare sapientemente gli stili assomiglia più al lavoro di un falegname del tardo ‘800, alla ricerca dei migliori legni per la credenza del signore, piuttosto che al musicista in cerca del “botto”. Questa ricerca necessita di umiltà, chiede di porre i piedi uno avanti all’atro con cautela, pretende calma e ponderatezza. Il risultato, ce ne fosse bisogno, è qui per dimostrare che Steensland ha ragione e i brani, pur amalgamati come fossero usciti dalla stessa penna in contemporanea, appartengono invece a ben quattro anni di diverse incisioni, a partire dal 2005 per giungere al 2008.
Il disco è strutturato con otto quadri di lunghezza variabile dai venticinque secondi e gli otto minuti e mezzo, incorniciati alla perfezione da due lunghissimi brani (16 minuti e 20 minuti) a inizio e fine. La scelta si rivela interessante e tende a generare una migliore lettura dell’intera opera.
Difficile, difficile sicuramente è parlare di un genere musicale: l’abilità dell’autore ci porta ad assaporare, in un intruglio personalissimo e mai banale, un tronco e le sue varie diramazioni di quella che è ed è stata la musica d’avanguardia e sperimentale da quarant’anni ad oggi, con un occhio decisamente puntato verso il futuro. Zeuhl innanzi tutto, nelle forme, nelle intenzioni, nella naturalezza celestiale del gesto musicale nell’uso della maggioranza dei momenti vocali (splendidi), RIO sicuramente, in certe scelte non canoniche di linguaggio, nell’uso dei fiati, degli strumenti acustici, delle metriche folli e dei cambi lessicali, Canterbury anche, in certe soluzioni vocali, in alcune poliritmie di nascita Egg, in alcuni momenti di chitarra alla National Health. Ancora qualche riff frippiano, qualche sprazzo zappiano e, cosa immensa e rara, senza intaccare minimamente la personalità e il tocco unico di chi sa esattamente dove deve arrivare. E allora ecco inseriti numerosi elementi di distacco, istintuali, veri, come il parco utilizzo di assolo e virtuosismi, come l’uso della tecnica al servizio della leggibilità e non della tortuosità ultima, il prendere l’ostinatezza gergale dello Zeuhl per farne una sorta di Repetita Iuvant, di versatile trampolino per lanciare l’idea successiva, riportando all’originaria musicalità anche il più tosto tempo poliritmico, in uno spirito vagamente hackettiano. E proprio a lui viene da pensare, ad esempio, nell’arpeggio acustico della breve e sublime “Lost In The Dark” dall’incredibile intreccio: Hackett sposa i Magma! O negli attacchi elettrici dell’opener “Der Klang von ''Musik''”. Da citare anche la brevissima quanto luminosa idea delle cambronniane “Merde!” e “Petite merde”, meno di un minuto assieme, per una trasognata e vaporosa atmosfera alla The Northettes. Comunque non c’è un brano migliore di altri, tutti contengono cose eccelse e progressivamente di alta qualità, ma oltre ai grandissimi contenuti delle due lunghe tracce citate, posto di rilievo meritano anche i movimenti energicamente architettonici di “Hide And Seek” la cui spazialità zeuhliana è alternata a momenti di più cupa tendenza RIO belga in un tutt’uno di raro spessore, persino sinfonico.
Cenno d’obbligo alla band, nutritissima e di valore indiscutibile, tra i quali spiccano, oltre ovviamente al polistrumentista padrone di casa, Morgan Ågren alla batteria e Robert Elovsson alle tastiere e al clarinetto, entrambi della band Mats/Morgan, Einar Baldursson potente chitarrista dei Gösta Berlings Saga, Arvid Pettersson al piano elettrico e uno stuolo di meravigliose cantanti che sono il vero elemento di distinguo di tutto il lavoro.
Disco geniale, praticamente perfetto. Disco dell’anno? Possibile.
|
Roberto Vanali
Collegamenti
ad altre recensioni |
|