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LEE ABRAHAM Black and white Festival Music 2009 UK

Forse il nome di Lee Abraham potrebbe non dirvi molto, eppure questo musicista britannico comincia ad avere una certa reputazione in campo new-prog. Oltre ad essere l’attuale bassista dei Galahad e a collaborare con altri progetti, è titolare di uno studio di registrazione che sfrutta sia per la propria musica che per quella di altri artisti. “Black & white” è il secondo full-length solista per Abraham, che si circonda, per l’occasione, di un buon numero di personaggi di spicco del new-prog inglese degli ultimi quindici anni. Dicendo che vi partecipano, tra gli altri, Steve Thorne, Gary Chandler degli Jadis, John Mitchell degli Arena, Simon Godfray dei Tinyfish, sicuramente stimolerò la curiosità di chi segue tuttora con una certa attenzione questa scena. E l’inizio è assolutamente promettente e meraviglioso con “And speaking of which…”, un breve strumentale elegantissimo ed atmosferico, che può ricordare certi episodi dei Pink Floyd in cui la chitarra gilmouriana fa sognare. Ma già a partire dalla traccia successiva, “Face the crowd” il pensiero che si sia trattato solo di un fuoco di paglia comincia purtroppo a sorgere, perché una sei corde abbastanza ruvida (suonata da Abraham) spinge nettamente su sentieri vicinissimi al prog-metal, con ritmi sostenuti, refrain accattivante, qualche rallentamento più raffinato che risolleva lievemente le sorti del pezzo e poca fantasia. Va meglio con “The mirror”, sette minuti di new-prog classico e orecchiabile, con discreti intrecci chitarra-tastiere, conditi da buoni solos. Non deve essere un caso, poi, che “Celebrity status” sembra un brano degli Jadis, vista la presenza di Chandler alla voce, ma questo pop-prog “caramelloso” stanca quasi subito. Nel finale i due pezzi forti. Dapprima i quasi quindici minuti di “Black”: inizio “bombastico” e potente, con tastiere in evidenza, poi un’alternanza di scelte melodiche, accelerazioni e sprazzi strumentali. Non tutto viene bene e forse per questo risulta la composizione che meglio rispecchia l’intero album, in cui si susseguono continuamente idee gradevoli e situazioni tutt’altro che riuscite. In chiusura ecco una nuova mini-suite, “White” (ventitre minuti segnati dal lettore, ma in realtà c’è un po’ di silenzio dopo diciassette minuti e mezzo e prima di quella che possiamo considerare come una ghost-track finale a cavallo tra pop e IQ), in cui un new-prog dai timbri moderni a volte si lancia verso un rock sinfonico maestoso con tastiere classicheggianti, a volte indurisce i timbri virando verso un sound più robusto ed a volte si fa più delicato con le note acustiche di piano e chitarra. Si ravvisa un po’ di maniera e alla fine anche “White” risulta altalenante… Un lavoro, quindi, in cui momenti interessanti ce ne sono; Abraham soprattutto sforna diversi assolo di chitarra degni di nota, ma, come già accennato, si perdono in una serie di alti e bassi continui che rendono l’album poco omogeneo ed un po’ difficile da seguire e da apprezzare.


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Peppe Di Spirito

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