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LEE ABRAHAM Distant days Edge of Life Records 2014 UK

Ancora un album che avanza tra alti e bassi, nel suo alternare new-prog, prog-metal e tentazioni pop, per Lee Abraham, personaggio che comincia ad essere sempre più presente da solista nella scena britannica, dopo i suoi trascorsi con i Galahad. Impegnato alle chitarre e alle tastiere, Lee coinvolge anche stavolta vari musicisti e cantanti legati al mondo del new-prog e a band quali Threshold, Shadowland, Frost, Mandalaband, Credo, Riversea, Lifesigns, ecc. e ci propone un’ora di musica e sette composizioni nuove di zecca in “Distant days”. Già con questi punti di partenza è facile intuire verso quali direzioni si può muovere l’album, che, infatti, all’ascolto, non rileva grosse sorprese. “Closing the door” apre le danze, con un new-prog molto robusto, scandito da ritmi pesanti e riff duri, con le chitarre in primo piano (buonissimo il lavoro di Karl Groom nelle parti soliste) e le tastiere ad ammorbidire solo un po’ le cose in sei minuti senza troppe pretese. La title-track è rimarchevole nei suoi spunti più romantici: bei tappeti di tastiere, melodie vocali di classe, assolo di chitarra elegante e piacevole. Niente di nuovo all’orizzonte, ma pollice in su per questo brano. Oltre sette minuti per “The flame”, che parte con una breve introduzione di piano classicheggiante, ma che punta poi su elementi di pop-rock vivace, quasi AOR, passando continuamente da momenti cantati orecchiabili a passaggi strumentali ruffiani e stucchevoli. Con tre minuti in meno poteva essere un’intrigante pop-song, così com’è, sembra un po’ tirata per le lunghe. Discorso simile per “Walk away”, in cui le componenti radiofoniche e di orecchiabilità si fanno ancora più marcate. La strumentale “Misguided” e “Corridors of power” tradiscono la voglia di inserirsi sul filone del prog-metal tecnico: la prima attraverso gli abili intrecci tra chitarra e tastiere; la seconda con due sezioni, in avvio e chiusura, all’interno delle quali i musicisti puntano su sonorità decisamente più morbide e su melodie malinconiche. Si ravvisano spunti interessanti (specie nel primo pezzo citato), ma anche poca fantasia e poco cuore. Alla fine il colpo di coda! “Tomorrow will be yesterday”, con i suoi quindici minuti, non solo è il punto forte dell’album, ma anche una composizione di notevole spessore che riesce a far sbalzare fortemente verso l’alto la qualità media. Una grande lezione di prog sinfonico, con ottime dinamiche, bella scelte timbriche e tantissimo buon gusto. Anche in questa occasione ogni tanto il sound si fa più aggressivo, ma tutto sembra costruito alla perfezione tra classici intrecci strumentali, solos da brivido e cambi di tempo e di atmosfera. Tirando le somme, ci si può chiedere se basta questo pezzo da novanta a far raggiungere la sufficienza all’album. Onestamente non saprei dare una risposta e penso che piuttosto che cercare formule matematiche per dare un giudizio completo, bisogna prendere “Distant days” nella sua interezza, con le sue caratteristiche che fanno vedere fuori sicuramente un certo talento compositivo. Nel complesso, tuttavia, non emerge nulla di realmente eclatante che possa rinvigorire una scena che resta piuttosto asfittica. Rimane tuttavia un lavoro che può trovare estimatori (anche in buon numero) in chi continua ad apprezzare in toto il new-prog britannico e quei gruppi che, pur partendo da esperienze marilliche (vedi gli Arena), hanno poi indurito il loro sound.


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Peppe Di Spirito

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