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BARRY CLEVELAND Hologramatron ElevenEleven Music/Moonjune 2010 USA

Ho sempre pensato che per sperimentare con successo fosse indispensabile sorprendere l’ascoltatore, ma non con il semplice gusto per la bizzarria o proponendo astrusità al solo scopo di stupire. Un risultato accettabile potrebbe essere solamente quello di attirare l’attenzione con le piccole cose, con i particolari, con un arrangiamento inconsueto o un passaggio di note fuori dai soliti schemi, in definitiva con qualsiasi cosa capace di farci sorridere improvvisamente in mezzo ad un brano musicale e ammiccare pensando “…come gli sarà venuta in mente un’idea del genere?”.
Barry Cleveland ci prova. Questo è quello che ho pensato ascoltando più volte “Hologramatron”, ultimo album del musicista americano. Il problema è che non ci riesce. Il chitarrista si muove in un campo che vorrebbe essere di sperimentazione e ricerca, senza però provocare quel sussulto o quel brivido che renderebbe l’ascolto dell’album più interessante. Intendiamoci, “Hologramatron” non è un brutto disco, assomiglia però ad un’occasione sprecata, quasi un tentativo non troppo convinto di realizzare un lavoro originale, che alla fine, infatti, non si rivela tale. Il genere proposto è un miscuglio che spazia tra il post rock e l’ambient, con qualche richiamo al metal e riferimenti ai Porcupine Tree e ai Pink Floyd più moderni. Una pletora di musicisti accompagna Barry Cleveland nella registrazione di questo lavoro, senza riuscire però a caratterizzarlo in maniera significativa, eccezion fatta per il virtuoso del basso Michael Manring, il quale riesce spesso ad emergere nell’uniformità dell’impasto sonoro grazie alla sua tecnica e alla sua inventiva.
Cleveland si sforza di variare timbri e arrangiamenti, suonando anche la Moog Guitar, innovativo (almeno così viene pubblicizzato) strumento capace di produrre suoni dilatati e timbri che si prestano alla sperimentazione, senza però realizzare alcunché di clamoroso.
Il disco scorre così via liscio, senza intoppi ma anche senza troppe emozioni, tra brani che indugiano in tentazioni funky (“Money Speaks”), altri, ben riusciti (“You'll Just Have To See It To Believe” e “Abandoned Mines”), basati su un genere ambient-rock strumentale, canzoni dall’ossatura acustica arricchita di speziature elettriche (“Stars of Sayulita”), altre dall’andamento insolitamente melodico (“What Have They one To The Rain”) e qualche tentativo, non memorabile, di giocare con suoni più ostici (“Warning”).
“Hologramatron” a mio avviso merita la sufficienza, ma non per questo è un disco convincente. “Senza infamia e senza lode” potrebbe essere la frase giusta per descriverlo. Il consiglio è di ascoltare attentamente qualche anteprima dei brani prima di acquistarlo.


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Nicola Sulas

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