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SCIENCE NV |
Really loud noise |
autoprod. |
2008 |
USA |
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La passione per la musica è una cosa grande, sia essa prodotta o semplicemente ascoltata. Questa band non ha nulla di tradizionale, non è formata da brufolosi coetanei o compagni di classe, non è formata da musicisti che si sono incontrati tramite annunci o tam tam di informazioni tra appassionati. Qui ci sono quattro signorotti di San Francisco di una certa età, uniti dal lavoro in ambito medico e da una sfrenata passione per la musica.
Dopo svariati anni di divertenti sessions decidono di autoprodursi e il risultato delle loro fatiche lo abbiamo in questo secondo loro CD, che a dispetto di quanto indicato nel titolo, ha un piglio piuttosto ordinato e ortodosso.
Molto vari gli sviluppi sonori dei brani, abbracciano in maniera decisa quello che è il prog nella sua accezione più ampia e strutturata e i dieci brani ci offrono un ascolto molto piacevole e cangiante, dove saltano fuori rock sinfonico, spunti classici, Yes, EL&P, jazz rock e fusion, qualche accenno space e dove la chitarra di Jim Henriques è controbilanciata dalle tastiere di David Graves, entrambi buoni protagonisti che si dividono gli spazi in maniera molto equa. E’ comunque un generale sapore jazzato (un riferimento potrebbe rimandare a certi lavori di Al Di Meola che predomina sugli altri suoni e un forte uso di accordi tipici del jazz su ritmiche molto dinamiche e variabili rende molto accattivante il tutto. Variabili anche in durata i brani sono compresi tra poco meno di tre minuti fino ai quasi dieci del brano di chiusura. Tra i brani fa un po’ strano trovare il Bolero di Ravel in una versione piuttosto fedele all’originale, pur se fatta con strumentazione elettronica. Ed è proprio l’elettronica l’altro suono che domina molte parti delle tracce, con suoni prevalentemente moderni e sintetici, specie nel finale del CD con la cosmica “Hard Break”, dai forti sapori Gong/Steve Hillage e con la lunga e maggiormente sperimentale “Violet Sky/Karnival”, dagli evidenti spunti Fripp/Eno. Da citare ancora i bei movimenti jazz e groove di “Mountain Pass Blues” dall’avvio persino vagamente Canterbury e l’opener “Devil in Witches' Hands” ricca di ottimi tecnicismi e dai suoni spagnoleggianti, molto mediterranei. Mi rendo conto che queste poche parole non aiutino molto a comprendere e a dare chiaro sunto del lavoro, ma spero sia chiaro che la band ha saputo riassumere tutte le influenze e tutti gli ascolti dei passati lustri progressivi in un disco personale e molto piacevole.
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Roberto Vanali
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