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SLYCHOSIS Mental hygiene Mals 2010 USA

Con apprezzabile puntualità, giunge alla terza prova la band “sudista” capitanata dal multistrumentista Gregg Johns, per l’occasione ricongiunto all’originale batterista Todd Sears e affiancato dal nuovo bassista Clay Pell. La vera novità consiste però nell’ingaggio a tempo pieno della vocalist Ceci Whitehurst, già ospite nell’album precedente, che supplisce in parte ad una cronica carenza nel settore, in precedenza coperto in modo discutibile dallo stesso Gregg, che stavolta si limita a ciò in cui riesce meglio (chitarre e tastiere) .
Senza entrare troppo nel merito dei due album passati, il sound degli Slychosis poteva essere sommariamente descritto come un prog con tendenze psichedeliche e hard rock, a volte sconfinante nel mainstream, con una registrazione non certo cristallina a penalizzare un po’ una proposta spesso interessante ma a volte troppo anonima ed incolore.
Se da una parte questa definizione può essere ancora valida per descrivere questo “Mental Hygiene”, dall’altra sono innegabili i progressi riscontrabili dai tempi dell’omonimo disco datato 2006: il nuovo album innanzitutto suona come lavoro di gruppo come mai in passato, le idee sono maggiormente sviluppate tanto da reggere la lunga durata (l’apertura in tre parti “Geistly suite”, potente e multiforme e “Angelus Novusaum”, costruita su molteplici intrecci tastieristici), gli intrecci vocali tra Sears e la Whitehurst ben riusciti (vedi la ballad “Fallen Tiger”, con una melodia da ricordare ed una chitarra esuberante) e le divagazioni benvenute (il tocco folk del mandolino con cui sia apre “Odessa”, strumentale eternamente in bilico tra l’elegiaco e il roccioso con cui Johns si pone in evidenza come chitarrista). L’eccessiva eterogeneità è stavolta meno evidente e quasi gioca a favore del gruppo, che in fondo trova proprio in questa molteplicità di ispirazioni la sua voce autentica. Sarà per il cantato di Ceci, ma stavolta un’influenza Rush risulta piuttosto ovvia (“Things unsaid”), intendendo con ciò i lavori della band di Geddy Lee posteriori agli anni ‘80. Parlando di influenze, le tastiere riversano ovunque scoppiettanti arpeggi di scuola Wakeman, generalmente con timbriche piacevoli e più organiche che in passato. Un discorso a parte merita la chiusura “Midnight”, brano guidato da un riff tiratissimo e affidato alla voce soul dell’ospite Bridget Shield: qui sì che pare di ascoltare un’altra band!
Insomma, di convinzione ce n’è in quantità, l’ispirazione è in ascesa e l’identità di gruppo sembra aver trovato un punto d’equilibrio: probabilmente non parleremo mai degli Slychosis come pilastro del nuovo progressive statunitense, ma il loro contributo alla luce di questo terzo lavoro chiede di non essere sottovalutato.
Concludo citando il lavoro grafico di Vladimir Moidavsky, già apprezzato sul precedente “Slychedelia”, le cui immagini surreali sono strettamente correlate alle liriche.


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Mauro Ranchicchio

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