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SOLSTICE COIL |
A prescription for paper cuts |
autoprod. |
2005 |
ISR |
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Band israeliana nata nel 2001 e con una nutrita esperienza live alle spalle, i cui componenti, al momento del loro ingresso durante i vari cambi di line-up, hanno portato influenze musicali tra le più disparate. Probabilmente è da imputare a questo l’ampia gamma di proposte all’interno del sound dei Solstice Coil, i quali abbracciano un range che va dal prog sinfonico all’alternative rock. Quest’ultima caratteristica è piuttosto evidente nel tipo di timbriche scelte, sempre molto potenti e spesso spigolose anche nei momenti più rilassati. Un primo album che nonostante sia autoprodotto denota parecchia professionalità, soprattutto grazie alla masterizzazione ad opera di Tali Cuts, figura rinomata nel settore delle produzioni israeliane. L’attacco vocale dell’iniziale “Photosensitivity” fa venire in mente di primo acchito l’Alan Sorrenti dei bei tempi. Il vocalist (e seconda chitarra) Shir Deutch, fondatore del gruppo, alterna costantemente un cantato ben impostato con dei falsetti, comunque sempre amalgamati con il pianoforte di Shai Yallin e il sassofono dell’ospite Oran Ben-Avi. La sensazione, dopo quest’inizio, è che i musicisti avrebbero anche potuto sforzarsi di tirare qualche altra trovata dal proprio mazzo di carte, anche se all’ascoltatore è stato in ogni caso comunicato qualcosa di abbastanza “forte”. Dopo i suoni pulsanti, elettronici ed ossessivi di “Caveat Emptor”, arrivano i nove minuti di “Selling Smoke” (ottimi i titoli), con controtempi, altri falsetti, atmosfere tecnologiche… che francamente vengono tirati davvero troppo per le lunghe. Le varie componenti, invece, combaciano alla perfezione in “Deep Child”, con un gran lavoro del batterista Uri Golberg e del chitarrista Ofer Vishnia, alternando fasi più contemplative ad altre davvero profonde e drammatiche. Grande il finale, in cui gli strumenti scorrono come un fiume in piena per degli attimi che sarebbe stato meglio prolungare ancora di più. Tutti elementi che si ritrovano nella seguente “Even Poets Die” (vengono in mente persino i Muse), uno dei momenti migliori e più intensi, grazie soprattutto ad un ispiratissimo assolo di chitarra finale. “Accidents”, che parte romantica, nel mezzo si tramuta in un brano di hard prog abrasivo, dove i controtempi ed i cambi repentini vedono protagonista, tra gli altri, la precisione del bassista Diego Olchansky. La track, dopo tanto virtuosismo ritmico, si interrompe bruscamente. “Enjoy The Ride” potrebbe essere un pezzo trascurabile, se non fosse per il sax crimsoniano di Ben-Avi che torna a farsi sentire, innescando delle autentiche reazioni a catena. “Anyone Can Be (A Porn Star)” (ottimi titoli, si diceva…) vede ancora un Vishnia furioso, con il solito gran finale stavolta riservato ai synth di Yallin. Chiude “Brilliance”, con il violoncello di Nella Cohen-Shani. Canzone triste e poco altro. In realtà, come si sarà capito, “A prescription…” non è affatto una priorità, ma allo stesso tempo presenta degli spunti parecchio interessanti. C’è da vedere se in futuro questi israeliani sapranno riprendere la parte migliore della loro musica ed elaborarla fino ad ottenere un album completo sotto tutti i punti di vista.
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Michele Merenda
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