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APARECIDOS |
Palito bombon helado! |
AltrOck |
2012 |
ITA/ARG |
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Vi sono svariate circostanze che uniscono gli uomini, le loro storie e i loro destini e capita così che vite separate dall’oceano si intreccino insieme scrivendo nuovi capitoli esistenziali in cui si riversano contenuti diversi e in cui a volte scopriamo strane affinità ed empatie. Quante simpatie e quanti sorrisi saranno nati dietro al gelato un tempo importato dalla lontana Inghilterra e venduto al grido di “Palito bombon helado!” nelle vecchie strade di Buenos Aires? E che bel sodalizio musicale è nato grazie all’arrivo in Italia dei fratelli argentini Santiago e Facundo Moreno (chitarra classica per entrambi e charango per il secondo), spinti lontano dal loro paese dalla crisi economica del 2001! Partiti da una terra che era il porto di arrivo per migranti provenienti da ogni parte d’Europa e approdati in una città portuale aperta e colorata come Genova, i fratelli Moreno non potevano che imbattersi e mescolarsi nel folto sottobosco musicale che popola le sue strette vie. In questo microclima creativo hanno trovato anche due membri dei Calomito (band molto apprezzata da queste parti che ha pubblicato nel 2011 un bell’album sempre per la AltrOck) e cioè Tommaso Rolando (contrabbasso e basso elettrico) e Marco Ravera (chitarra elettrica). A questo nucleo si aggiungono poi Santo Florelli alla batteria, messinese emigrato negli U.S.A. e poi giunto anch’egli a Genova, Manuel Merialdo, abile percussionista che ha affinato le proprie doti artistiche in terra cubana, e Mattia Tommasini al violino. A mescolare ritmi, fragranze e melodie intervengono anche ospiti, ma soltanto in un paio di tracce, come Filippo Gambetta alla fisarmonica diatonica e Tatiana Zakharova alla voce. I colori più svariati dell’Argentina, ma in generale dell’America Latina, fluiscono morbidamente nei territori del jazz rock e riscopriamo anche un tocco di calore mediterraneo a rendere il tutto più speziato. Le tante variazioni cromatiche e ritmiche si alternano e compenetrano in maniera sempre garbata con un filo conduttore continuo che è fornito dalle colorazioni acustiche della chitarra e del charango. Proprio la traccia di apertura, “Tanto gonfio saremo”, dà esempio di grande varietà, aprendosi con il grido del gelataio prima descritto e oscillando fra trame jazz, svariati ritmi latini e un’impronta vagamente classicheggiante fornita dal violino, come a dare alla musica di Buenos Aires una connotazione universale. In questo senso non possono che venirmi in mente le intuizioni di Rodolfo Mederos che riuscì a estrarre una specie di succo dalla musica della sua città che poi ha utilizzato come ingrediente prezioso per espandere le frontiere musicali di allora. Qui non abbiamo per esempio il bandoneon e, come abbiamo visto, anche la fisarmonica si fa vedere in una sola occasione (per la precisione nella terza traccia, “Zamba del chaparrón”) ma in un certo senso, come i geni danno comunque espressione di sé anche se non li possiamo vedere direttamente, anche l’anima argentina, ed in generale latina, di questo album è sempre tangibile. A dominare la seconda traccia, “La cumbia inglés”, è un celebre ritmo di origine colombiana ma che ha attecchito anche nei quartieri poveri di Buenos Aires che in questo caso pretende di essere anche un po’ inglese. I passi allegri della cumbia si aprono verso delicati paesaggi sinfonici, soprattutto quando entra il violino, e a volte persino un po’ Canterburyani. Capita poi che un assolo di chitarra jazz rock continui a danzare su quei ritmi latini senza perdere la sua strada mentre le percussioni tradizionali si intrecciano ad una batteria non invadente ma suonata con estrema perizia. Nelle tante oscillazioni la musica assume mille connotazioni geografiche e non a caso nella struttura free della breve “Impro” spunta timidamente anche un piccolo accenno alla partenopea “’O sole mio”. Nella varietà di contaminazioni offerte da queste canzoni troviamo anche una quasi circense “Saracinesca” con i vocalizzi della già citata Tatiana che parte come qualcosa che ricorda i folleggiamenti di Lars Hollmer e finisce quasi col diventare qualcos’altro di forse più affine al folklore dell’area balcanica. Molto bella l’intessitura chitarristica di “Amuleto”, magicamente aggraziata, languida ed elegante, sostenuta da un supporto ritmico leggero ma piacevolmente articolato, mentre raggiunge una dimensione etnica cameristica la gentile traccia di chiusura “Peperina en el semaforo” che, con le sue melodie che potrebbero ricordare paesaggi andini come pure strane cineserie, mi fa venire persino in mente qualcosa degli Uzva. Questo album, nella sua piacevole duttilità, appare a vedere bene di difficile decifrazione: sebbene qua e là riusciamo a percepire distintamente il sapore dei singoli ingredienti, nel loro insieme si ottiene una commistione sicuramente particolare. Mi piace poi il modo in cui diversi linguaggi, dai più semplici e comunicativi, come quelli della tradizione, a quelli più ricercati del jazz rock, a tratti animato da un soffio leggero di avanguardia, entrano in simbiosi fra loro con immediatezza e garantendo sempre una certa piacevolezza e fruibilità di fondo. L’amicizia fra musicisti provenienti da terre lontane ha generato anche una felice convivenza di attitudini musicali, ritmicità e sonorità diverse che riscopriamo in questo album brillante e spontaneo che vedo potenzialmente destinato ad un pubblico non elitario.
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Jessica Attene
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