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PHI |
Years of breathing |
autoprod. |
2013 |
AUT |
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Già nella recensione dell’EP precedente di questo ensamble si era iniziato dicendo che, oggi come oggi, pare faccia assai tendenza nei giovani musicisti autodefinirsi post… Come se ci si fosse svegliati in un mondo devastato da qualche disastro, ove regnano le macerie di un oscuro passato di cui non si sa più nulla, rischiarate dalla pallida luce di un sole (per l’appunto) post-atomico. E tutto diviene asettico, forzatamente gravato da una tristezza sia compositiva che riflessiva, in cui l’unico parametro vigente pare essere la presa di coscienza di un’erosione interiore che si differenzia per ogni soggetto capace ancora di pensare ma che, allo stesso tempo, è costantemente uguale a sé stessa. Finendo per appiattire tutto. Eppure i Phi, nonostante ci tengano tanto a mettere in chiaro la loro natura post-progressive rock, proprio nel mini “For the love of ghosts” (2012) mettevano in luce un approccio assai tosto, dai contorni decisi e definiti che dovevano più di qualcosa ad una traccia sotterranea della vecchia tradizione hard Seventies, con tecnica ed inventiva assai apprezzabili, dando un senso persino ai fin troppo stereotipati concetti dell’odierno prog-metal. Tra le promesse di stupire con il lavoro successivo (cioè, questo) e l’affermazione di non sentire affatto il peso del secondo fatidico full-length album in quanto si ha a che fare con una band underground e quindi scevra da qualsiasi legge di mercato condizionante, la curiosità di sentire cosa diamine avessero composto i tre austriaci era piuttosto forte. Il fatidico passo verso una definitiva evoluzione musicale è dunque stato compiuto? Risposta secca: no. O quantomeno, non come le roboanti premesse facevano felicemente sperare. Anche se viene il dubbio che buona parte dei brani fossero pre-esistenti, magari aggiustati per la pubblicazione e quindi c’era ben poco da essere innovativi. Tale pensiero viene dopo aver tentato di leggere tra le righe della nota emessa dal gruppo e soprattutto sentendo la conclusiva “A clear view”, che somiglia parecchio a quanto lasciato su “For the love…”, con un basso bello potente e distorto a la Geezer Butler. Tutto quanto viene prima, invece, risulta totalmente differente. O quasi. C’è sempre questo romanticismo decadente da terzo millennio (quindi ancora più depressivo!) che permea ogni nota, come se la scena fosse incentrata su un tizio che ha lo sguardo fisso e assente verso un freddo e tardo autunno tipico del centro-nord Europa. Le aperture di pianoforte dell’iniziale title-track e di “Exile” (affascinanti, per carità) sono assai simili tra loro e chissà per quale motivo portano alla mente le numerose pubblicità con velleità poetiche di automobili che tanto ci bombardano quotidianamente, probabilmente per la sensazione da spazio aperto di campagna e di freddo bucolico. La stessa “Exile” ha però un finale con immagini molto intense, così come “Empathy and the crowbar”. “Cashflower prayer answering machine” è qualcosa di più elaborato, con controtempi serpeggianti ed il solito basso ben evidenza che scandisce i ritmi, ricordando gli Afghan Whigs più profondi (a proposito, perché a differenza di altri quest’ultimi non vengono ritenuti prog?), mentre la strumentale “Singularity” è uno degli episodi più riusciti con richiami anche crimsoniani. Ulteriore conferma che il trio riesce particolarmente bene in un certo tipo di situazione, come accade spesso all’interno dei ventuno lunghi minuti di “Life passing by”, dove il sassofono dell’ospite Ulrich Krieger apporta delle partiture assai particolari assieme al piano molto discreto dell’altro special guest Hans Hausl. Certo, il minutaggio è forse eccessivo e l’esplosione finale viene accolta come una liberazione dei sensi. Di sicuro, in questo “Years…” i Phi sembrano far sorgere delle vere e proprie immagini nella mente dell’ascoltatore, come dei fotogrammi volutamente opachi che vengono stoppati e poi rilasciati di colpo. L’intento dichiarato era quello di trasportare lungo dei “viaggi” e questo, soprattutto dopo tanti ascolti, sembra un obiettivo centrato. Dal loro punto di vista, quindi, l’ultima fatica discografica non può che essere un successo. E alla fine, visto che i ragazzi suonano senza dover scendere a compromessi con nessuno, nemmeno con i recensori e le relative paturnie che ne conseguono, non si può che essere felici per loro.
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Michele Merenda
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