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THE WINDMILL |
The continuation |
autoprod. |
2013 |
NOR |
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I mulini a vento norvegesi continuano a girare nella stessa direzione di tre anni fa, quella del debutto “To be continued…” rispetto al quale questo album si pone in diretta continuità, come ben evidenziato anche dal titolo. Formazione immutata così come le intenzioni e lo stile che non si muove di un millimetro più in là. Di conseguenza ritroviamo le stesse luci e le stesse ombre, le stesse perplessità e gli stessi pregi. Partendo da questi ultimi ricordiamo prima di tutto gli ampi scenari sinfonici disegnati da suoni vintage, alcuni dei quali davvero pittoreschi, come quelli che rilucono nella cameliana “The Masque”, le belle melodie arrangiate in modo non sfarzoso e piuttosto rustico, lo spirito disimpegnato che diffusamente si percepisce e che rende leggero l’ascolto. Sull’altro piatto della bilancia rimane una voce solista non particolarmente dotata e a tratti fastidiosa che però continua a rimanere in un angolino lasciando ampio spazio alle lunghe ed interminabili sequenze strumentali. Un altro punto su cui bisognerebbe lavorare è la struttura dei brani a piccoli blocchi. Si passa in modo abbastanza schematico da un tema all’altro senza fretta, pian pianino, sul percorso scandito da una sezione ritmica piuttosto statica. La conclusiva “The Gamer” dura ben 24 minuti ma potremmo divertirci a scomporla in tanti altri brani più corti e non cambierebbe poi tanto. Stessa cosa dicasi per i dodici minuti della già citata “The Masque”, costruita anche questa da momenti che si succedono in modo quasi slegato. L’album scorre così passo dopo passo, senza fretta, in un lento avvicendarsi di varie situazioni. Lungo il tragitto, che percorriamo senza particolari brividi ma in modo spesso piacevole, troviamo dei particolari interessanti disseminati qua e là per catturare l’attenzione e ci imbattiamo così in graziosi inserti di flauto o di sax, entrambi a cura di Morten Clason, belle sequenze tastieristiche, talvolta col piano, eseguite dal bravo Jean Robert Viita, richiami di ispirazione folk, aperture Floydiane, impasti genesisiani e così via. La chitarra ha un ruolo molto più limitato con parti soliste alla Latimer oppure con riff di sostegno più ruvidi ma mai aggressivi. La conclusione a cui si arriva è più o meno quella dell’esordio: un album che offre situazioni interessanti e piacevoli e che mostra allo stesso tempo grossi margini di miglioramento e pecche che non pregiudicano troppo il risultato finale e che una volta eliminate potrebbero fare finalmente la differenza. Al prossimo giro spero quindi in un rinnovamento e non in una semplice continuazione. Staremo a vedere.
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Jessica Attene
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