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THE WHITE KITES |
Missing |
Deep Field Records |
2013 |
POL |
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Mi piacciono le copertine bizzarre e colorate. Guardandole ho l'impressione di poter indovinare la musica che rappresentano, che nella mia testa è sempre altrettanto folle e varia. Fortunatamente riesco a mantenere sotto forma di gioco questa mia fissazione, anche perché è ovvio che la corrispondenza tra musica e immagini non sempre si concretizza. Nel caso dei White Kites, però, posso dire di averci azzeccato. Si tratta di una band polacca dal suono molto inglese, complice la presenza alla voce di un cantante britannico, autore anche dei testi. La musica suonata dal gruppo ci porta indietro nel tempo, in un indefinito periodo di passaggio tra gli anni '60 e i '70, quando sembrava che l'indecisione tra certe ingenuità beatlesiane, le sfuriate psichedeliche e i gli esperimenti che andavano definendo il suono progressivo potevano miracolosamente produrre risultati inaspettati quanto sorprendenti. In "Missing" c'è tutto questo, e forse anche di più. L'iniziale "Arrival" è molto rappresentativa degli intenti dei White Kites, col suo assalto acido chitarristico, la batteria incalzante ed il successivo rallentamento che lascia la strada all'organo, per proseguire in un continuo alternarsi di temi, arpeggi, interventi di flauto, declamazioni e atmosfere circensi che ben giustificano la definizione di "folle" attribuibile alla musica. È bene precisare che il termine "folle" non ha un'accezione negativa, non significa cioè approssimativo, sgangherato e incoerente. Le parte musicale, scritta quasi completamente dal tastierista Jakub Lenarczyk, è molto curata e indubbiamente pensata. Tutto l'album è infarcito di canzoni che alternano atmosfere sognanti, malinconiche o allegre, con il fantasma di Syd Barrett che ha evidentemente posseduto i musicisti durante le registrazioni, i quali probabilmente hanno anche fatto il loro bravo pic-nic nelle campagne attorno a Canterbury per lasciarsi impregnare gli abiti dei profumi musicali sparsi dalle band nate nella città inglese (soprattutto i Caravan). Ogni tanto c'è qualche riferimento progressivo più spinto, ma rimane sempre sotto forma di traccia, quasi un'ombra che fa capolino in un arrangiamento di mellotron o in un'introduzione di organo. Sono molto più evidenti i rimandi ai primi Pink Floyd ("Percival Buck" ricorda abbastanza la "Corporal Clegg" di "A saurceful of secrets") e allo stile vocale di Robert Wyatt, e spunti folk emergono qua e là a confondere ulteriormente le acque, come in "Should you wait for me" e in "Clown king", oppure è la follia psichedelica ad essere lasciata a briglia sciolta, producendo il risultato gradevolmente dissonante di "Turtle's back". Volendo riassumere, è impressionante come i White Kites siano riusciti a sintetizzare in maniera così efficace tutte queste influenze senza rimanerne sopraffatti. Il risultato sarebbe potuto essere facilmente confusionario, mentre invece tutto è piacevole e sorprendentemente fresco, anche nel CD singolo acquistabile a parte, contenente altre due "Love songs" che non hanno trovato posto nell'album. Credo che "Missing" possa diventare uno di quegli album il cui ascolto difficilmente arrivi a stancare, anche se non dovesse piacere alla follia il genere, se non altro per il fatto di essere permeato di una vena agrodolce di umorismo musicale che non guasta mai in un ambito in cui i protagonisti, in parecchi casi, si prendono decisamente troppo sul serio.
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Nicola Sulas
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