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THE WHITE KITES |
Devillusion |
Deep Field Records |
2020 |
POL |
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L’album d’esordio di questa band di Varsavia risale al 2013 e si era guadagnato numerosi apprezzamenti per la sua musica direttamente ispirata alla scena di Canterbury, con variazioni psichedeliche e pop dalle radici ben piantate nei tardi anni ’60. Non era facile ripetersi sugli ottimi livelli di quel primo album e in questi anni si erano perse le tracce di questa band, facendo temere che rimanesse una splendida opera unica; proprio sul finire del 2020 invece arriva la bella notizia di quello che gli americani definirebbero il sophomore album. Nonostante siano passati diversi anni, la formazione ha subito poche variazioni ed è sempre guidata dal vocalist di origine britannica Sean Palmer, attorno al quale c’è un nutrito gruppo di musicisti, tra membri propri della band ed ospiti, impegnati con strumentazione tradizionale e non; tra quest’ultima spiccano flicorno, banjo e vari strumenti a fiato. A primo impatto notiamo che in questo nuovo album sembra essere stato dato maggior impulso alla forma canzone: non che il precedente contenesse suite o brani particolarmente lunghi, ma “Devillusion” è costituito da 14 tracce molto brevi che solo in un caso superano i 5 minuti di durata. Fin dall’avvio di “Spinning Lizzie” veniamo proiettati in pieni anni ’60, con riferimenti a Zombies, i Beatles di fine decennio o anche ai Rolling Stones dello stesso periodo… ma con atteggiamenti giocosi ed ironici, con un cantato deliziosamente teatrale, che non possono non portarci anche a riconoscere le influenze di Caravan, Hatfield & The North ma anche della stralunata genialità di Syd Barrett, e il flauto (assieme ad altri fiati) usato senza parsimonia. Davvero un sound peculiare, se si pensa che stiamo parlando di una band polacca. …E l’album procede quindi così, tra brevi quadretti e divertissement, supportati da una produzione brillante che mettono in luce sia i delicati arrangiamenti dei momenti più delicati come “Frozen Heartland” o la genesisiana “Mysteries in the Sky” (cantata dalla tenue voce di Ola Bilińska), sia anche i brani più accattivanti come “Dragon”, che sembra quasi uscita dalla mente creativa di Ringo Starr, della già citata “Spinning Lizzie” o della clownesca “Not a Brownie”. Menzione anche per la coppia di brani “Goodbye Gaia” e “Mother Mars”, dalle sonorità (e tematiche) spaziali e legati tra di loro in modo logico e consequenziale. C’è una bella alternanza negli umori che contraddistinguono i vari brani che fa in modo che la noia non riesca proprio a sfiorarci durante i 46 minuti di quest’ascolto. Forse siamo leggermente al di sotto rispetto al bellissimo esordio ma la lunga attesa non è stata certo inutile e deludente.
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Alberto Nucci
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