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HENRY FOOL |
Men singing |
KScope Music |
2013 |
UK |
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Il concetto è ormai completamente diverso da quello originale che è andato in netto decadimento, ma se questo disco fosse di parecchi anni fa per i suoi esecutori si parlerebbe probabilmente di “supergruppo”. Quantomeno di uno strano supergruppo, dove i nomi che girano sono a volte noti, a volte notissimi, basti pensare al nucleo fondativo che partiva dal duo Tim Bowness (No-Man) e Stephen Bennett (LaHost). Gli Henry Fool sono alla seconda uscita in carriera e a ben dodici anni dal disco omonimo d’esordio. Era il 2001 e la musica, allora, era davvero molto debitrice del sound dei Porcupine Tree dei quali potevano essere intesi, in effetti, come un anomalo spin off. In tutti questi anni passati, nel corso dei quali i vari membri hanno partecipato alle più svariate ed importanti collaborazioni (Hackett, Paatos, Pendragon, David Cross, Peter Banks, Brian Eno …), è stato messo da parte un po’ di materiale musicale, quanto basta per elaborarlo per un nuovo disco interamente strumentale al quale, in maniera stuzzicante e provocatoria è stato dato il nome di “Men Singing”. Quindi, per questa nuova uscita, Tim Bowness lascia da parte la sua attitudine al canto e dedica tutti i suoi sforzi alla chitarra, dividendo oltretutto gli spazi con l’altro chitarrista della band, Michael Bearpark e con uno degli ospiti, Mr. Phil Manzanera. Anche per le tastiere vediamo un supporto al leader Stephen Bennett, Jarrod Gosling per le parti di mellotron. Ad affinare il suono il bravo sassofonista, flautista Myke Clifford e la notevole sezione ritmica con Andrew Brooker alla batteria e Peter Chilvers (già collaboratore di Eno) al basso. Un altro ospite è il violinista Steve Bingham, anche lui già sentito con i No-Men. A confezionare il suono e l’impronta finale di masterizzazione ecco lo storico Andy Jackson, più e più volte al banco dei Pink Floyd. Nei risicati quaranta minuti complessivi del lavoro, solo quattro brani, due sui tredici minuti e due sui sette. Molto diversi tra loro e tutti piuttosto variabili nello sviluppo, condensando quindi una gran quantità di aspetti in un tempo che una volta era più tipico per i dischi in vinile. Pochi brani val la pena analizzarli uno ad uno e quindi partiamo con “Everyone in Sweden”, ricca di dinamiche jazz prog, a partire dalle ritmiche ma anche per i vari sali scendi, crescendo, stacchi e cambi repentini, brano davvero bello, arricchito anche da momenti canterburyani e da spazi quasi da prog sinfonico, articolato verso un finale più atmosferico e ipnotico. La title track è un altro bel coacervo di stili, toccando persino momenti prog folk, ma a dominare sono temi che rimandano ai Soft Machine e che troviamo in bilico tra le atmosfere di “Seven” e quelle di “Land of Cocaine”. Su tutto, grande spazio al flauto e ai tappeti di mellotron per un altro gioiello di brano. Salgono le tendenze psichedeliche e space, anche con accenni floydiani, per “My favourite Zombie dream”, brano dalle dinamiche molto particolari e lisergiche. A chiudere, l’altro brano lungo “Chic Hippo”, dominato da un mantello cupo, apparentemente uscito dalla Bibbia Nera crimsoniana, ma ben spazzolato e ripulito dalle frecciate dell’improvvisazione troppo free per l’epoca attuale e una riscoperta (molto di moda, ormai) di temi apertamente psichedelici. La batteria è volutamente più scarna, asciutta e martellante, forse nel tentativo di dare sicurezza. Decisamente più Gong e Canterbury Sound in generale per il finale. Bellissimo lavoro che, forse e ammesso che serva, aggiunge poco al panorama attuale in fatto di novità. È comunque capace di convincere in ogni suo momento ed è così piacevole da richiedere ascolti ripetuti, sorprendendo un po’ ogni volta.
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Roberto Vanali
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