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Si tratta di un supergruppo composto da musicisti con svariate esperienze nell’ambito del Progressive Rock (e non solo) che hanno rilasciato un album che già in partenza si potrebbe preannunciare interessante e stimolante. Nel dettaglio i Galasphere 347 sono Stephen James Bennett (già con LaHost, No Man, Henry Fool e nella band di Tim Bowness), Ketil Vestrum Einarsen (con numerose collaborazioni, tra le quali ricordiamo quelle con Fruitcake, Panzerpappa, White Willow, Weserbergland, The Opium Cartel e Rhys Marsh), Jacob Holm-Lupo (il mastermind dei White Willow, anch’esso con numerose altre collaborazioni) e Mattias Olsson (Änglagård, Necromonkey, eccetera eccetera…). Quello che ci troviamo di fronte è un album composto da 3 sole tracce, tra i 10 e i 15 minuti di durata, ciò che non fa che accrescere la nostra impazienza. I primi minuti d’ascolto di questo lavoro di primo acchito scema un po’ i nostri entusiasmi: ci potevamo trovare di fronte a un florilegio di fuochi artificiali ma quello che andiamo ad ascoltare sembra mantenere un profilo piuttosto basso, come ritmiche e sonorità. Consideriamo il fatto che manca un vero e proprio tastierista ed anche le chitarre paiono essere penalizzate ed utilizzate con parsimonia: le tastiere ci sono ovviamente ma di queste se ne occupano part-time i vari musicisti (Lupo escluso) ma almeno nella prima parte non viene creato il muro di suono che ci saremmo potuti aspettare, salvo fortunatamente prendere lentamente quota col passare dei minuti. Cosa abbiamo quindi? Beh, viste le premesse del background dei singoli musicisti, alla fin fine quello che è venuto fuori da queste 8 mani non è poi così sorprendente né particolarmente deludente. Le esperienze di Bennett sono forse quelle che maggiormente sono presenti in questa musica, così come le passioni recenti di uno come Olsson che, dopo gli esordi sinfonici con gli Änglagård, negli ultimi anni sembra più interessato alla psichedelia e al krautrock. Ecco quindi che abbiamo delle lunghe escursioni musicali che a livello generale possono essere inserite nell’ambito del Prog sinfonico, ma che si mantengono in sordina, con poche accelerazioni, che comunque vengono a parer mio sempre affossate dal cantato di Bennett, troppo monocorde e con pochissime note alte nel suo curriculum. Se la prima traccia di appena 11 minuti scarsi passa praticamente inosservata, le due successive sarebbero decisamente più articolate e movimentate. Gli umori si vanno progressivamente riscaldando nella seconda e terza traccia ma c’è da dire che le impennate vengono costantemente penalizzate da un suono troppo appiattito e dal cantato di cui sopra che mai riesce a cavalcare le ritmiche per contribuire a far galoppare un po’ questa musica a briglia sciolta. L’ultimo brano sarebbe davvero bello ma rimane questo senso di incompiutezza che non riesce a farcelo apprezzare adeguatamente e che ci lascia parzialmente insoddisfatti. In definitiva, un album con grandi aspettative, visti i nomi coinvolti, ma una resa finale non del tutto positiva. L’album è in crescendo ritmico ed emozionale e un avvio debole e sottotono sfocia in un finale decisamente sopra le righe, se solo i suoni fossero più brillanti. Sufficienza piena… ma non di più.
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