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Quante volte è stato dato per spacciato il Pescione? Quante volte abbiamo pensato che non aveva più nulla da dire? Già a metà degli anni ’90 sembrava che il gigante scozzese avesse esaurito le cartucce, poi la collaborazione con Steven Wilson e due ottimi album come “Sunset of empire” e “Raingods with zippos” ne avevano fatto risalire prepotentemente le quotazioni. In seguito, dei lavori un po’ insipidi, omaggi non troppo riusciti agli anni con i Marillion, la voce che andava sempre più via, fino ad una crisi sentimentale proprio poco prima dei passi verso l’altare che aveva riacceso la creatività e permesso la realizzazione di un nuovo lavoro di buonissima qualità come “13th Star”. Un’operazione alle corde vocali sembrava compromettere nuovamente il prosieguo dell’attività musicale dell’ormai cinquantenne Fish, che poi sforna nel 2013 un nuovo disco, ben più che dignitoso, bello, ispiratissimo, con testi profondi, che si lascia ascoltare con grande piacere e che sicuramente farà felici tutti coloro che non hanno mai smesso di credere nelle capacità dell’artista. Certo, è bene sottolineare che non ci si può aspettare l'estensione dei tempi marillici, ma quella voce ancora inconfondibile e carismatica, dal timbro caldo, magico, suggestivo, non ha perso la forza evocativa che la ha sempre caratterizzata e riesce ad ammaliare ancora. Con “Perfume river” il Pescione cala subito l’asso: un bellissimo prog-rock aperto dai suoni di una cornamusa, affiancata poi da tastiere ambient e da arpeggi di chitarra acustica, per un inizio soft e dagli accenti folk; in seguito la composizione si vivacizza molto, con un crescendo di intensità e con i ritmi pronti ad accelerazioni e rallentamenti. L’incedere carico di tensione, le dinamiche incantevoli e la bella performance vocale fanno il resto in quasi undici minuti che decretano una partenza ottima. E’ il secondo brano “All loved up” che magari lascia delle perplessità, con un pop-rock molto ritmato, che lascia all’asciutto di emozioni con il suo andamento scanzonato e leggero, un po’ seguendo le orme di quella “Big wedge” presente sul disco d’esordio. Si cambia completamente indirizzo con “Blind to the beautiful”, ballad tenue e struggente, con la voce accompagnata esclusivamente dalla delicatezza di chitarra acustica, piano, tastiere e violino e potrebbe ricordare anche certe cose del Mark Knopfler solista. Il rock sofisticato e tirato della title-track, semplice, ma di buon gusto e ben costruito, cede poi il posto alla mezz’ora più interessante del cd, con cinque tracce che vanno a formare la “High wood suite”, vero e proprio “cuore” dell’album. In questa lunga sezione, Fish rievoca la battaglia della Somme nel Nord della Francia, avvenuta durante la Prima guerra mondiale, scavando a fondo tra le atrocità del conflitto, narrando in maniera toccante di monumenti ai caduti, perdite umane, campi di battaglia, chiamate alle armi, sconfitte, attimi di vita dietro le trincee, panorami desolati e altro ancora. Dall’andatura drammatica e imponente di “High wood”, sorretto, oltre che dalla voce grave (e a tratti recitante), anche dagli archi e con una vena classicheggiante, si passa a “Crucifix corner”, uno dei vertici del disco, inizialmente caratterizzata da un mood malinconico supportato da piano e chitarra acustica, ma che va poi in un crescendo assolutamente trascinante, prima di concludersi nuovamente con un andamento più rilassato. Si passa poi a “The gathering”, che, aperta da fanfare, mostra una maggiore vivacità, avanzando tra marcette e folk-rock spedito. “Thistle Alley”, invece, parte con un’atmosfera più misteriosa, ma ben presto deflagra in un bellissimo e trascinante hard-rock che ci accompagna fino al termine del brano tra riff coinvolgenti, belle melodie vocali e cambi di tempo. “The leaving” porta a conclusione la suite partendo come ballata amara, rispolverando sonorità classiche con pianoforte ed archi in bella evidenza; l’entrata di una sezione ritmica solenne e la spinta della chitarra elettrica rendono poi il brano ancora più epico. Conclusa una lunga cavalcata, che anche per il tema trattato risulta asfissiante, si volge verso la fine del disco. Ci si arriva dapprima con il romanticismo raffinato di “Other side of me” e poi con la magia di sei minuti e mezzo intitolata “The great unravelling”, due composizioni dalla vena gilmouriana, con ritmi cadenzati e con Fish che duetta con la suadente voce di Elisabeth Troy Antwi, mentre piano, chitarra e archi rifiniscono elegantemente. Dopo un album che alternava rabbia, durezza, malinconia e lirismo, ecco un lavoro diverso, più intimista, ma nel quale pure vengono giocate delle carte interessanti, partendo da fondamenta acustiche e flirtando con il folk, con un cantautorato ricercato e diverso, avvicinandosi solo a tratti all’hard-rock, eppure mantenendo quasi sempre una sorta di eredità con i trascorsi prog di Fish. Merito di brani di qualità, che crescono ad ogni ascolto, facilmente assimilabili e che restano ben impressi nella mente. “Feast of consequences” magari è da acquistare nella confezione deluxe, con annesso DVD di presentazione e con libretto di 100 pagine, su cui posare gli occhi mentre scorre la musica, leggendo i testi e ammirando lo splendido artwork curato da Mark Wilkinson.
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