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NODO GORDIANO |
Nous |
BTF/AMS |
2014 |
ITA |
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Prima di imbarcarsi per un lungo viaggio, specie se non hai idea di dove il tuo spirito di avventura ti porterà mai, è bene mettere assieme con molta cura bagagli e strumenti di navigazione e scegliersi un equipaggio capace e coraggioso. L’equipaggio per i Nodo Gordiano si è ancora una volta rinnovato, con l’ingresso di Fabrizio Santoro dei Vu Meters (chitarra, basso e sintetizzatori) che va ad affiancare il binomio costituito dal veterano Andrea De Luca (voce, basso, chitarra acustica ed elettrica, sintetizzatori e saz) e da Carlo Fattorini (batteria, percussioni acustiche ed elettroniche, glockenspiel e vibrafono), salito a bordo già ai tempi di “Alea”, nel 2005. Il bagaglio comprende tutte le esperienze musicali che negli anni hanno permesso al gruppo romano di sfornare, in ben vent’anni di carriera, quattro opere (inclusa la presente) sensibilmente diverse le une dalle altre. Ritroviamo quindi le solide basi Crimsoniane degli esordi, come anche le tante derivazioni dal sapore sperimentale collezionate nei lavori successivi che ora rappresentano un ulteriore punto di partenza alla volta di nuovi lidi. Le sensazioni che scaturiscono dall’ascolto di questo album sono molteplici e a volte persino ambigue e contrastanti, proprio perché gli elementi in gioco sono tanti e la struttura dei brani è tutt’altro che prevedibile. Sembra quasi di navigare a vista in acque ignote, ora col favore degli astri ben visibili e del vento propizio e ora inghiottiti dal buio e dalla nebbia, senza neanche una misera bussola alla mano. Apprezziamo così melodie ampie e definite con elementi sinfonici chiari, tinteggiature orchestrali, ma anche densi fumi psichedelici, elementi elettronici ed ambient, colorazioni etniche, qualche tocco di oscura goticità, paesaggi Floydiani e suoni a volte squadrati e robusti e altre volte ancora delicati e malinconici, il tutto incastonato anche nell’arco di una sola traccia. Ecco quindi che “Officina” ha un che di gotico ed oscuro, con i suoi synth tenebrosi ed avvolgenti e le lunghe ombre crimsoniane ma ben presto le poche linee di canto sembrano mettere più a fuoco il pezzo che ci concede un intermezzo strumentale sinfonico e profondamente Genesisiano, ornato da bei suoni orchestrali. L’apertura delicata di “Arturiana”, con il vibrafono ed i registri flautati delle tastiere, introduce in realtà una sequenza elettrica e lugubre, quasi Sabbathiana, e il brano appare ora graffiante e sinistro, ora meditativo, persino Cameliano a tratti, ora energico, ora incredibilmente lento, teso e glaciale e ancora intensamente romantico sul finale, con il Mellotron sullo sfondo che disegna paesaggi sognanti. Altrettanto inquietante e cangiante si profila la conclusiva “Stella maris” che si apre col rassicurante sciabordio delle onde marine che si insinuano fra le scintillanti note del pianoforte. Ma presto i suoni si irrobustiscono e danno vita a strutture musicali spigolose e frastagliate grazie all’interazione fra la chitarra elettrica e la batteria, elettronica e acustica. Credo comunque che questo album presenti, forse più che in passato, disegni accuratamente studiati e meno istintivi, dai tratti ben scolpiti, che lasciano poco spazio agli impulsi e alle approssimazioni, rimanendo comunque aperti alla ricerca. In particolare trovo davvero intrigante il modo in cui i suoni acustici si compenetrano con quelli elettrici, con il saz che conferisce a tracce dal taglio moderno e dalla struttura non convenzionale fragranze piacevolmente speziate. Gli arpeggi di “Portonovo”, il brano di apertura, con quel Moog arioso e le percussioni tradizionali, danno quasi l’idea di una cauta navigazione nella foschia, mentre la musica si scolora in una sottile bruma psichedelica. Gli intrecci acustici sono percussivi ed eleganti, dal sapore vagamente mediorientale nella porzione centrale, ove si avvinghiano agli slanci di una chitarra elettrica impetuosa. La stessa gradevole alternanza fra suoni elettrici ed acustici, con vibranti chiaroscuri, rende interessante “Apologia del nolano”, brano dedicato a Giordano Bruno, che brilla per i suoi colori musicali insoliti, accostati con gusto. Squadrato e robusto dapprima, il pezzo si tinge di sfumature etniche con un bel vibrafono ma gode anche di aperture sinfoniche molto suggestive, dominate da tonalità tastieristiche calde che mi riportano, complice anche il cantato (ma utilizzato in questo album con grande parsimonia, in soli tre brani su sette), a certo prog nostrano d’annata. E’ fatta invece di sensazioni ampie e soffuse la centrale title track. Qui la nostra mente, “Nous”, sembra vagare attraverso suoni impalpabili in una lenta catarsi di umori Floydiani. Si gioca sulle distorsioni e sui riverberi (bello l’uso del wah-wah), sulle sfumature, si seguono scie psichedeliche e ci si perde in vasti spazi scivolando via sul finale in dissolvenza. Gli stessi vuoti e le stesse ampiezze le ritroviamo in “Aion”. Qui una chitarra Gilmouriana apre a riff potenti ed ammalianti, dalle venature hard blues e dai riflessi psichedelici e all’improvviso la musica si dirada, lo spartito si svuota e ci ritroviamo immersi in una matrice space un po’ alla Ozric Tentacles ed il finale, dal sapore quasi new age, emerge quasi come un miraggio. L’album, come avrete capito, è fatto di continue fluttuazioni e la musica sembra sempre in cerca di qualcosa di inafferrabile e l’ascoltatore stesso non può che vagare in questa specie di labirinto ricco di simbologie, astrattismi e dejà-vu, in cerca dell’uscita e comunque felice di perdersi definitivamente in un’opera di decifrazione non immediata che, volendo, si può anche fare a meno di decifrare, abbandonandosi alle sensazioni del momento in una piacevole deriva.
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Jessica Attene
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