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JACK O’ THE CLOCK |
Night loops |
autoprod. |
2014 |
USA |
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Il mio problema, perché qui sono io ad avere dei problemi, lo ammetto, è quello di aver amato alla follia il precedente album dei Jack O’ The Clock, quel meraviglioso ibrido musicale di “All My Friends” che univa in modo unico avanguardia e melodia, folk e RIO, in un insieme stravagante ma terribilmente poetico. Quando ti piace così tanto una cosa, di fronte a una proposta nuova e diversa che non corrisponde, o corrisponde solo in parte, alle tue aspettative, allora non puoi che fare il conto di quel che manca, di ciò che avresti voluto, di come il nuovo album non è. Insomma, se anche voi, seguendo o meno i miei consigli, siete arrivati ad amare “All My Friends”, rimarrete sicuramente un po’ spiazzati da questo quarto album in studio dei Jack O’ The Clock. La musica ha perso molte delle sue connotazioni folk americane e gioca meno sulle belle melodie vocali del leader Damon Waitkus. Se “All My Friends” era spigliato e solare, questo disco qui è oscuro, introverso, enigmatico e criptico. Le intenzioni dei musicisti sono quelle di esplorare le ossessioni che divampano nelle ore notturne, e lo fanno seguendo una logica tutta loro, con brani astratti, minimali e poco addomesticabili, mescolando come al solito ingredienti poco affini fra loro e utilizzando tutta una vasta gamma di suoni, rumori ed effetti elettronici. I brani stessi sono molto variegati: a volte si tratta di semplici e curiosi intermezzi, altre volte sono più strutturati e altre volte ancora ci ritroviamo alle prese con degli ibridi poco consequenziali ed è un po’ come brancolare nel profondo della notte, quando gli oggetti e le sensazioni si deformano con l’oscurità e nel silenzio senza fine persino i rumori familiari risuonano in modo sinistro e le angosce di un sonno agitato ci proiettano in luoghi da cui preferiremmo fuggire, con il risveglio che sembra non arrivare mai a liberarci. Ecco un loop notturno che proprio non mi piace, il ronzio di un insetto che apre “Ten Fingers” e l’album intero e che introduce un treno di suoni poco amichevoli. La voce di Waitkus è filtrata e sfocata, le percussioni sembrano ottenute tramite oggetti vari (e in effetti così avviene spesso nelle canzoni dei Jack O’ The Clock che si armano persino di pentole, coperchi e corrugati, pur di scovare qualche sonorità inedita), il violino forma un loop distante che sembra esso stesso un ronzio ed il brano, sospeso nel suo minimalismo, sembra non prendere mai forma, persino quando il cantato si fa affabile. In “Bethlem Watcher” ecco invece il ticchettio di un orologio che nel vuoto della notte rimbomba come fosse il Big Ben e magari è solo una sveglietta da camera. Per fortuna qui parte un groove molto buffo con un violino che sembra quello di Fred Frith e stuzzicanti echi dei Gentle Giant nelle melodie, con un clima scherzoso che pervade un pezzo comunque molto flebile nei suoni. Qui ci è andata bene, ammettiamolo, ma in “How the Light is Approached” il ticchettio sembra proprio quello di un ingombrante pendolo. Le voci si fanno eco le une alle altre con un fastidioso effetto di stordimento e sullo sfondo ecco i consueti giochi percussivi. Fra i brani più strutturati troviamo una bella “Come Back Tomorrow” in cui finalmente riscopriamo alcuni tratti in comune col precedente album. Ecco quindi elementi folkish convogliati in una struttura semplice, un cantato ipnotico e vellutato e la chitarra acustica, arpeggiata e pizzicata quasi fosse un banjo. Il violino è delicato e cameristico, i ritornelli finalmente ammiccanti e sul più bello il brano si trasforma in una graziosa miniatura dagli aloni Canterburyani. Non male direi, ma si tratta di un ritorno di fiamma pressoché isolato. Bella lo è anche “Salt Moon”, spezzettata e avanguardistica, sulla scia degli Henry Cow, fatta di particolari sonori minuti e stuzzicanti fra i quali rilucono i suoni di violino, fagotto e vibrafono, organo a canne e guzheng, che vanno a definire un brano finemente destrutturato. Altrettanto interessante ma meno accogliente e decisamente più delirante è “Fixture”. Qui, con vibrafono, marimba e bongo che forniscono sonorità quasi tribali, sembra di procedere goffamente a dorso di elefante nella giungla inesplorata. Il violino baritono e il fagotto sono voci sinistre che si fanno strada in un ambiente che non è il nostro e noi veniamo lasciati lì come sospesi in balia di una traccia ricca di mistero e pervasa da effetti percussivi diligentemente studiati per creare questa ambientazione sonora surreale. In tutto questo guazzabuglio di canzoni eccentriche e variegate è un po’ strano imbattersi in “Down Below”, dall’approccio più rockeggiante, con la chitarra slide che segue un monotono ritmo binario e persino ritornelli ben individuabili. Ma si tratta in effetti dell’ennesima contraddizione di questo album fatto di minuterie musicali e chincaglierie, astrusità e lampi di genio. C’è comunque un po’ di spazio anche per i sogni che arrivano finalmente con la traccia di chiusura, “Rehearsing the Long Walk Home”, una ballad notturna fatta di pennellate rapide e confuse che trova unità in una performance vocale molto bella. Non si può dire che questo non sia un album interessante e lo strano modo di fare dei Jack O’ The Clock è sempre ben evidente, anche se gli ingredienti sono miscelati in dosi molto diverse che non permettono di eguagliare la formula più affascinante e accattivante, a gusto mio, di “All My Friends”. Questo è un album dalle gradazioni scure, che trasmette solitudine, come se, non riuscendo ad addormentarci dovessimo domare le nostre paure in silenzio, procedendo adagio, per non disturbare il sonno altrui. Queste sono le ossessioni della notte, questi i suoi loop.
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Jessica Attene
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