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JACK O’ THE CLOCK Repetitions of the old city I autoprod. 2016 USA

Ho amato alla follia “All my Friends”, terza prova in studio, uscita nel 2013, del gruppo americano capitanato dal poliedrico polistrumentista Damon Waitkus, un po' meno mi ha colpito il successivo “Night Loops” del 2014 per motivi meglio descritti nella apposita recensione che scrissi per l'occasione. Cosa aspettarsi quindi da una band che non ha categorie musicali, la cui storia sembra andare per conto suo, capace in definitiva di soluzioni imprevedibili? Sono felice di annunciarvi che accolgo con grande entusiasmo il ritorno dei Jack O' The Clock a soluzioni musicali melodiche e poetiche che dominano un album gentile e complesso che sconfina in territori avanguardistici con leggerezza e che combina attraverso soluzioni semiacustiche influenze e stili sonori piuttosto diversi. Vi ho già spiegato come Waitkus riesca a comporre pezzi in definitiva fruibili ricorrendo a soluzioni cameristiche con decise contaminazioni folk americane, se anche voi quindi siete già caduti nella sua rete, riscoprirete alcune delle qualità che già conosciamo.
Sono tre i pezzi che emergono in modo vistoso e sono quelli più lunghi. Il primo di questi giunge precocemente dopo una brevissima traccia di apertura, “I Am So Glad to Meet You” (anche io Jack...) che funge da rapida introduzione (un minuto e mezzo di cori a cappella con trame chitarristiche appena accennate). “The Old Man and the Table Saw” dura 10 minuti e mezzo e si apre con i rintocchi finissimi dulcimer che cadono come pioggia finissima lieve e solleticante facendo risplendere impasti sonori particolari e sofisticati con melodie ariose che a volte hanno un che di orientale e altre volte sprofondano in nuance Canterburyane con eleganti elementi cameristici. Un'occhiata agli strumenti impiegati per ottenere certi accostamenti stimolerà ulteriormente la vostra curiosità e quindi citiamo in particolare Emily Packard col suo violino, Kate McLoughlin al fagotto ed il nostro Waitkus che, oltre che col dulcimer, si cimenta anche con mandolino e pianoforte. Gli altri due musicisti che voglio presentarvi subito sono quelli che si occupano della versatile e garbata parte ritmica con Jason Hoopes al basso e Jordan Glenn alla batteria (ma anche al vibrafono e alla marimba). Il parco strumenti varia comunque di canzone e canzone e non potrete fare a meno di notare, ad esempio, la presenza della tromba e del trombone (a cura di alcuni ospiti), del flauto (suonato sia da Kate che da Waitkus) ma anche di Pianet, bicchieri da vino, guzheng e chitarra elettrica, sempre a cura di Waitkus.
Tornando alla nostra lunga traccia, posso dire che mi ha fatto ricordare qualcosa dei nipponici KBB impreziositi però da inserimenti vocali molto Oldfieldiani in un mosaico di suggestioni davvero variegato. Poi c'è il cantato, così piacevole che definirei anche radiofonico se questa parola non venisse comunemente associata a impressioni negative. Quando Damon Waitkus canta, soprattutto nella parte centrale, gli strumenti gli fanno vuoto attorno dandoci l'idea di una immensa e romantica solitudine per poi ripartire con molti particolari e minuterie, con un effetto finale stupefacente. La melodia e le parti vocali sono lo straordinario collante di un album che gode di belle colorazioni strumentali e di eterogenei spunti di ispirazione, come più volte ribadito, spero in modo abbastanza chiaro.
Il secondo pezzo lungo è il successivo “When the Door Opens, It Opens on Everything”, metafora davvero azzeccata per descrivere quest'opera. Stuzzicanti sono le percussioni e i giochi della chitarra, un po' Frippiana, che si intreccia a vibrafono e marimba in mille lucenti arpeggi che riecheggiano un po' i Gentle Giant. Le contaminazioni folk sono uno dei tratti caratterizzanti di questo brano che nel suo complesso vive però in una dimensione cameristica in cui prevalgono le tinte acustiche e il cui domicilio più appropriato appare il centro di un accogliente salotto condiviso da amici più che un palco predisposto per il grosso pubblico. E' incredibile come le maglie musicali di questo brano manchino in compattezza e allo stesso tempo siano ricche di tanti particolari.
Per trovare un altro pezzo molto lungo bisogna andare avanti fino alla nona e penultima traccia, “Fighting the Doughboy” (13 minuti circa). Si parte con percussioni spezzettate e basso elettrico e, a seguire, violino e marimba: stavolta le intessiture sono molto più vicine al RIO con visioni che ci fanno pensare a degli Enry Cow molto soft e cameristici. La voce sempre limpida e melodica, forse anche un po' poppish, crea un'autostrada di luce che taglia scenari frastagliati in un susseguirsi di continui singhiozzi, dossi e curve. Più breve, 7 minuti circa, ma di grande sostanza è “Videos of the Dead” che gode della presenza di Fred Frith come ospite d’eccezione alla chitarra. I suoni questa volta sono più indefiniti, minati da visioni elettroniche che a volte generano ansia, ma per fortuna la voce è sempre qualcosa di rassicurante che ci conduce lungo le innumerevoli variazioni di un brano imbevuto di tante sfumature. Il flauto sembra quasi uno spettro dallo strano retrogusto orientale e le orchestrazioni fanno cappa sullo sfondo generando foschi presagi.
“22, or Denny Takes One for the Team”, quasi 7 minuti, si basa di intrecci molto particolari metà etnici e metà fusion, ricordando molto da vicino gli Esthema o, volendo scegliere un gruppo che tutti conoscono, i Dixie Dregs. Suggestivo e poetico soprattutto per le parti corali soffuse, la musica è capace di guizzi inaspettati con gradevoli sollecitazioni jazz, folk e sinfoniche, aprendosi sempre su nuovi spiragli e sperimentando con grazia nuovi ibridi musicali. Il sopraggiungere della tromba scura aumenta le gradazioni di colore che partono dal dulcimer scintillante ed acuto, passando per il violino con fragranze che ci riportano anche verso i Gentle Giant.
“Epistemology/ Even Keel”, 5 minuti circa, ha un approccio più minimale con parti canore che ricordano dei Beatles molto lunari e qui ci affacciamo ormai sulla selezione dei pezzi più brevi (a questo punto mancano all’appello solo “Whiteout” e la conclusiva “After the Dive”), intermezzi che fanno un po’ da ponte e che aumentano l’idea di varietà che accompagna costantemente un album originale, tremendamente piacevole e ricco di idee, una vera rarità per chi avrà la fortuna di apprezzarlo.



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Jessica Attene

Collegamenti ad altre recensioni

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JACK O’ THE CLOCK Night loops 2014 
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