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MARIA FAUST |
Sacrum facere |
Barefoot Records |
2014 |
EST |
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Quelli col Maria Faust Group non sono gli unici impegni di questa talentuosa sassofonista che, per la realizzazione di questo particolarissimo progetto, si è ora attorniata da una nutrita schiera di musicisti internazionali. Il talento di Maria Faust si spinge in più direzioni, dal jazz-rock più o meno avanguardistico, alla musica da camera fino ad abbracciare il folk, elementi questi che vengono combinati in modo variabile a dare vita a interessanti ed originali contaminazioni. Lo abbiamo visto benissimo nello stupendo “Warrior Horse” in cui emergevano prepotenti richiami al folk estone che riuscivano a donare a quell’opera, da me particolarmente amata, una carica emozionale potente e quasi ancestrale. Qui invece il folk è l’elemento chiave e la musica viene ora spogliata di ogni asperità e di ogni contrasto per divenire qualcosa di criptico, introspettivo, brumoso e pastorale. Maria Faust, che suona i quest’occasione il sax alto e il clarinetto, ha riportato alla luce una corrente del folk estone quasi giunta ad estinzione, che sopravvive in tracce solo in regioni remote, come quella di Setomaa, nel sud del paese, ai confini con la Russia. Si tratta della canzone runo, o regilaul in lingua locale, particolarmente suggestiva per quel che riguarda il cantato femminile, accompagnato da strumenti a fiato derivati da quelli usati dai pastori, come anche dallo zither, dal violino o dalla concertina. Questo ciclo di sette composizioni è stato composto da Maria Faust per un ensemble di tre ottoni, tre legni, pianoforte e zither, strumento quest’ultimo che ci avvicina fortemente alla tradizione estone. La veste di queste composizioni non è tuttavia per nulla rustica ed assume uno stile classico, molto austero. Il ritmo è spesso quello dell’adagio o del requiem e gli strumenti a fiato vengono impiegati per dare forma a scenari molto spenti, dalle tonalità gravi ma comunque avvolgenti e molto coreografici. “Epp”, la traccia di apertura, più che imprimere tristezza sembra quasi trasudare dolore. Dimessa, di una pace rassegnata, procede lenta e tetra, appena illuminata dal suono chiaro dello zither. Il sottofondo di fiati è funereo ma orchestrale e molto suggestivo. E così si avanti con “Tui”. La tuba di Daniel Herskedal, musicista norvegese, dà un suono grave che contrasta quasi con quello del clarinetto di Francesco Bigoni. La musica procede quasi singhiozzando, con ricami melodici spezzettati e minimali, quasi goffa ma elegiaca al tempo stesso. “Lydia” è plumbea, col pianoforte ossessionante e appena accarezzato dalle dita di Emanuele Maniscalco, come se questi avesse timore di rompere o interrompere qualcosa, ma è comunque nevrotico. Tutte le melodie, appena accennate, cadono in frantumi in un caotico divagare per poi riemergere sul finale, con tutti gli strumenti, riappacificati, procedono all’unisono. Si tratta di composizioni smaniose, spesso ostinate ma flebili. Anzi, in “Hiie” i suoni, dimessi, sembra quasi che abbiano paura a fendere il silenzio che li circonda. Lo zither alleggerisce appena lo spirito che viene inondato dalle lunghe note spente dei fiati e dal grave trombone di Mads Hyhne, strumentista danese, che ci regala uno splendido assolo jazz. Ma il jazz qui c’entra solo marginalmente e spesso si fa ricorso a frammenti di avanguardia con improvvisazioni anarchiche e minimali. “Virve” è allora indisciplinata e destrutturata, con le sfuriate dei fiati ed il piano martellante e dissonante e gli strumenti sembrano riecheggiare nel vuoto, nutrendosi di sinistri silenzi. Ecco quindi che appare una melodia rassicurante ma terribilmente buia, come tutto appare buio in questo album. Nella title track, spenta e lenta, interviene la voce di Maria Faust che sembra quasi sussurrare a labbra strette una sorta di preghiera. In “Itk” invece la voce femminile di sottofondo che intona un lamento ripetitivo, contrappuntato da linee musicali desolanti, di cui appena ci accorgiamo, appartiene a Anne Vebarna ed è tratta da un’antologia di musica tradizionale estone. Si chiude così il cerchio e un album breve, 42 minuti in tutto, di non facile lettura, criptico, minimalista, misterioso e stranamente affascinante, qualcosa con cui si entra difficilmente in confidenza ma che lascia sicuramente il segno nell’animo di chi ci si avventura.
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Jessica Attene
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