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SEVEN IMPALE |
City of the sun |
Karisma Records |
2014 |
NOR |
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Quando dei ventenni (in questo caso siamo attorno ai 22/23 anni) tirano fuori un album sopra la media, sfoggiando oltretutto carattere e personalità, non possiamo fare a meno di stupirci dimenticando che diversi anni fa ragazzi della stessa età o anche più giovani hanno fatto vacillare tutte le nostre certezze in campo musicale, aprendo di fatto strade del tutto nuove che sarebbero state percorse più e più volte dalle generazioni successive. Robert Fripp, tanto per fare un esempio, nel 1969, quando è successo ciò che sappiamo, aveva 23 anni, per l’appunto. Se Dio vuole insomma il Prog non è fatto soltanto di vecchie cariatidi e questo, per favore, non dimentichiamolo mai. Lasciando da parte i luoghi comuni legati all’anagrafica in campo musicale, direi che avere vent’anni oggi, nel mondo del Prog, significa avere passione e coraggio oltre che grinta e poche preclusioni nel mescolare con disinvoltura stili musicali non sempre affini fra loro. Il nome Seven Impale è stato scelto da questo gruppo di Bergen, nato nel 2010, ad indicare che la religione spesso condiziona o “impala” gli esseri umani togliendogli la possibilità di fare le proprie scelte. E direi che i nostri amici non si lasciano condizionare da nessuno e confezionano un album debitore sì verso i sacri numi tutelari del nostro genere ma anche abbastanza originale negli accostamenti. Non siamo ai livelli della rivoluzione Crimsonisana e nessuno pretende tanto in fondo ma ci troviamo al cospetto di un disco abbastanza Frippiano, contaminato da elementi sonori eterogenei, confezionato in modo lucido e piacevole. Colpisce più di ogni altra cosa la versatilità di questi musicisti nel passare inaspettatamente e senza spezzare il feeling dei brani, da sonorità sature di elettricità a scenari dominati da melodie seducenti. Ora osticamente Crimsoniani, ora languidi e lunari con un cantato alla Rhys Marsh, sostenuto dalla voce penetrante di Stian Økland, e ambientazioni sofisticate alla Jaga Jazzist. Ritroviamo molti elementi jazz, grazie soprattutto al sax di Benjamin Mekki Widerøe, dilatazioni psichedeliche ma anche spinte vigorose imbevute di rumore ed energia, a volte tendenti al metal ma non troppo, a dire il vero. Molto belle sono in particolare le progressioni del sax che spesso agisce in sinergia con la chitarra elettrica di Erlend Vottvik Olsen in modo granitico ma estremamente fluido. Un esempio concreto e ben riuscito di quanto ho appena enunciato è senza dubbio rappresentato dalla centrale “Eschaton Horo”, un brano che vive di impeto e dolcezza. L’ingresso è squisitamente progressivo con ritmi intriganti che ricordano i Gentle Giant e poi ecco la voce di Stian che scivola come velluto su un sottofondo leggero e lucente, dalle morbide nuance jazzy. Quella che pare una ballad carezzevole viene all’improvviso scossa da improvvisi sussulti ed il sound diviene fragoroso, caotico ed effervescente senza schiantarsi tuttavia contro il muro del metal, pur essendo un concentrato di pura dinamite. E’ incredibile come tanta carica si sciolga con estrema liquidità volgendo verso soluzioni raddolcite e suadenti. Mi ricorda un po’ i migliori Black Bonzo per il suo groove la traccia di apertura, “Oh My Gravity”. Anche qui il cantato è seducente e quasi poppish, troviamo dilatazioni psichedeliche e sfumature post rock con trame chitarristiche Crimsoniane. A volte le maglie sonore si allentano e lasciano intravedere ampi paesaggi sonori ma altre volte si serrano e gli strumenti procedono con forza, spinta su spinta. Qui il sax sembra volersi divincolare da un contesto sonoro rumoroso ma a suo modo intrigante. Inizia invece in modo rabbioso e distorto “Extraction”, un brano che si presenta sporco e d’impatto con l’organo Hammond di Håkon Vinje che riesce comunque a riportarci sulla giusta sintonia. La voce stavolta è rabbiosa e urlante, quasi alla Robert Plant, il sound è piacevolmente vintage ma carico di elettricità ma le variazioni sono continue e non è concesso all’ascoltatore abituarsi al mood del pezzo che muta continuamente, aprendosi persino ad improvvise ondate di ispirato romanticismo. I brani di questo album sono soltanto cinque, con un minutaggio che occupa comodamente i due lati di un vecchio vinile (e in effetti esiste anche la versione su 33 giri, tanto per essere precisi). Se “Windshears” si fa notare per i suoi giochi di note ora lievi, ora vulcanici, dai contrasti accesi con ampie oscillazioni fra lo spettro del silenzio e quello del rumore è invece la conclusiva “God Left Us for a Black-Dressed Woman” a dominare l’opera e non solo per il minutaggio che sfiora i 15 minuti. Il feeling è dapprincipio notturno, colorato da arpeggi e dal sax stregato. Piano piano si va materializzando la giusta atmosfera fatta di sogni oscuri e ansie appena percettibili. Gli impasti sono intrisi di psichedelia e la struttura ritmica è movimentata e stimolante con un grande lavoro del bassista Tormod Fosso e del batterista Fredrik Mekki Widerøe. Ora la struttura del brano si apre, somigliando quasi a qualcosa di free jazz, e un secondo dopo il sound si riorganizza come una perfetta macchina in assetto di guerra per poi lasciare campo a emozioni serpeggianti ed ammiccanti. Le progressioni sonore sono duttili e potenti ma si aprono anche verso scenografie maestose ed invitanti. Forse il paragone con Zappa proposto altrove è un po’ eccessivo, anche se bisogna dire che questi ragazzi non mancano in creatività ed ecletticità, la cosa certa è che questo disco, nelle sue tante oscillazioni, appare molto equilibrato e ben confezionato. C’è energia, ci sono soluzioni progressive, una manciata di jazz, atmosfere nordiche, un pizzico di romanticismo e persino del rumore in un insieme che non lascia campo alla noia. Direi quindi che possiamo concedere senza timore la nostra fiducia a questa giovane band che oltretutto ha ancora tanto spazio per crescere.
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Jessica Attene
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