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SEVEN IMPALE Summit Karisma Records 2023 NOR

Non è facile parlare del terzo lavoro dei Seven Impale, sestetto norvegese che ad agni album sembra voler “appesantire” sempre di più la propria proposta; quattro lunghi brani, che vanno inquadrati nell’ottica di altrettante figure mitologiche riportate nei titoli, tenendo stampata nella mente quella rocciosa altura nordica che in copertina si staglia nel gelo della desolazione nordica. Come se fosse un inaccessibile Monte Olimpo in terra norrena, reso ancora più irraggiungibile alla stirpe umana e con un che di maligno, di spietato. È il summit che dà il nome a questa uscita, l’impossibile incontro al vertice tra Entità divine.
Un indurimento costante del proprio stile, si diceva; un fattore su cui deve aver giocato anche la militanza del tastierista Håkon Mikkelsen Vinje nelle fila degli Entombed. Il singolo “Ikarus”, che aveva fatto da apripista, metteva in (fosca) luce l’approccio divenuto sempre più heavy, non facilitando per niente l’ascolto. Poco più di nove minuti (la più breve del lotto!) aperti da distorsioni e assalti sia vocali che strumentali. Ben presto, il sassofono di Mekki Widerøe si staglia con fare Crimsoniano in quello che diventa sempre più un magma, un bollente oceano in cui i singoli strumenti (in alcuni momenti) appaiono totalmente indistinti. Mentre si riflette sul fatto che ci potrebbero anche essere dei riferimenti ai vecchi Motorpsycho, la componente jazz prende il sopravvento, per poi ritornare nell’indistinzione di cui sopra. È qualcosa di folle, in cui il basso di Tormod Fosso e soprattutto la batteria di Fredrik Mekki Widerøe vengono costretti a eseguire evoluzioni inumane. Poi, momenti di relativa quiete che suonano forse ancora più inesorabili, preludio del finale in cui il sax si mostra più abrasivo che mai.
E dire che l’iniziale “Hunter” (riferito forse al cacciatore Orione?) era cominciata col pianoforte che suonava circospetto, seguito col medesimo ritmo dalla narrazione di Stian Økland, ribadendo la sua attitudine operistica, portata avanti parallelamente alla carriera nel gruppo. Un incedere figlio della tradizione Sabbathiana, il cui testo viene praticamente declamato e cantato allo stesso tempo. Poi, si scatena la solita frenesia Crimsoniana, dissonante, alienata e alienante come le miriadi di voci che si sentono ad un tratto sotto la superficie musicale. Dopo sei minuti questo stile altalenante cambia, lasciando spazio alla dannazione del buio nordico, terminando con nuove dissonanze simil-jazz. A confronto, “Hydra” potrebbe apparire persino contemplativa, quasi ispirata dai Gong maggiormente eterei; ma basta attendere poco più di due minuti per sentire nuovamente le chitarre di Erlend Vottvik e dello stesso Økland tornare a macinare riff. Qui il paragone può essere fatto nuovamente con i connazionali Motorpsycho, quelli più moderni però. La composizione si rivela una delle più progressive in assoluto, effettuando passaggi tanto repentini quanto organici tra fasi dettate dal sassofono ad altre comandate dalle tastiere incandescenti, andando a scemare lentamente. Subito dopo la già citata “Ikarus”, ecco “Sisyphus”, la più lunga di tutte, che conferma l’alternarsi di tracce caotiche con altre più strutturate e composite, a tratti addirittura di “atmosfera”, sempre nei limiti del caso trattato. Qui, l’astuto figlio di Eolo, fondatore dell’attuale Corinto e capace di sfidare più volte gli dei – ma che alla fine viene condannato per l’eternità a far rotolare a braccia un macigno sulla montagna, per poi raccoglierlo nuovamente e ricominciare daccapo – è rappresentato in un’ambientazione la cui metrica potrebbe ricordare certe composizioni dei Sieges Even; ma il sassofono e (a volte) le tastiere creano un maggiore senso di “irrealtà”, anche nei momenti che poi divengono nuovamente frenetici. Più di tredici minuti dove c’è anche spazio – tra le altre cose – per un jazz trasfigurato tramite la classica attitudine Zappiana, oltre a uno stile che nell’intera seconda parte lascia ampio spazio a soluzione swingate, nostalgiche e notturne, praticamente cinematografiche, sentite già molte altre volte, che però qui suonano maledettamente belle e sempre piacevoli.
Non è facile parlare del terzo lavoro dei Seven Impale. Questo era l’incipit e può essere tranquillamente la summa conclusiva. La scelta di rappresentare il Mito consente di accentuare la dilatazione delle composizioni e sperimentare, muovendosi in più campi e su più livelli. Tutto questo porta ad un’attitudine prog come lo poteva essere nel suo concetto inziale, anche se stilisticamente può apparire molto distante (se si parla di prog, tanto come attitudine che come genere e/o stile, si verrà messi in croce comunque…). Il primo ascolto destabilizza e non se ne vorrebbe più sapere; il secondo forse spiazza ma lascia intuire alcuni barlumi… Quindi, occorrono più sedute d’ascolto di questo album, magari non tutte per intero, per comprendere che il sestetto nordico crea un lavoro d’insieme in cui le strutture cambiano rapidamente. E anche quando la musica diviene caos, i nostri sembrano risultare sempre padroni della situazione, senza mai lasciare nulla al caso. Pure quei frangenti, infatti, sono il risultato di un’attenta e complessa operazione compositiva. Non è facile questo terzo lavoro dei norvegesi. È stato già detto?



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Michele Merenda

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