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FLËUR |
Shtormovoe preduprezhdenie (Storm warning) |
Cardiowave |
2014 |
UKR |
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Ecco che con cadenza quasi perfettamente biennale, nonostante gli eventi che hanno sconvolto la vita della popolazione ucraina, esce il nuovo album dei Flëur, l’ottavo in studio. Negli anni il gruppo è riuscito a plasmare uno stile musicale assolutamente personale, magnetico ed attraente. C’è da dire che dopo un periodo molto felice, per lo meno nell’universo russofono, di concerti e successi, sulla cresta dell’onda della scena gotica, è purtroppo sopraggiunta una fase di stagnazione, non artistica, visto che il livello qualitativo delle opere è sempre e comunque elevato, quanto sul piano della popolarità. Quando poi i venti di guerra si sono abbattuti pesantemente su Odessa, città natale della band, la situazione è diventata ancora più difficile e il nuovo album ha rischiato di non vedere la luce. La splendida e centrale “Ramky” (“fotogrammi”) testimonia, con i suoi versi struggenti e la musica elegiaca e decadente, i sentimenti devastanti che scaturiscono dalla tragedia ucraina, l’incredulità di fronte a scenari inverosimili, fatti di buio e lingue di fuoco… mondo violento, sei così reale! Possiamo vedere come il cielo abbia deciso di mettere alla prova tutte le nostre forze, in una sequenza infinita di disastri, recitano i versi di “Trostnik” (“Canna”), “ma come una preghiera continuiamo a ripetere centinaia di volte: noi non abbiamo paura”. Di fronte alla tempesta i Flëur hanno rafforzato il loro carattere, hanno continuato per la loro strada senza perdersi d’animo né cedere a tentazioni ammiccanti, magari in cerca di qualche effimero passaggio radiofonico. Hanno scavato nella propria anima volgendo in musica e poesia i loro sentimenti, hanno cercato verso le proprie radici riscoprendo lo stile fresco dei primi bellissimi album in studio, hanno chiesto e ottenuto la fiducia dei fans più affezionati, grazie ai quali hanno portato a termine con successo la campagna di crowdfunding per il finanziamento di questa nuova opera. E i fans del gruppo, me compresa che con orgoglio posso dire di aver risposto all’appello, sono stati premiati da un album in cui sono imprigionate emozioni potenti, abbigliate da vesti sonore leggiadre, dalle colorazioni crepuscolari e dalle fragili ricamature. Un prodotto curato come sempre in ogni piccolo dettaglio, a partire dall’artwork e dalla confezione elegante in digipack. Si ripete come un rito lo schema che da sempre contraddistingue i dischi dei Flëur. Dopo una breve “Intro” parte il primo pezzo interpretato dalla bella voce di Olga Pulatova. ...il ferro canta, il ferro conosce solo un paio di note… sotto la pelle di ferro batte il cuore di una vita. E quel paio di note sembra di sentirle quasi ovunque in trasparenza, come spettri ostili che minacciano la bellezza di un paesaggio musicale romantico ma offuscato da tristi presentimenti. La voce di Olga ci culla dolcemente con i suoi versi rassicuranti e ripetitivi, gli archi, con violino di Anastasia Kuz’mina ed il violoncello di Viktoriya Baranova, infondono una malinconia tenera ma rassegnata ed il pianoforte splendente di Ekaterina Kotel’nikova regala suggestioni gotiche e classicheggianti. Peccato che manchi del tutto il flauto che un tempo aveva invece un ruolo di primo piano. Ad un pezzo di Olga ne segue sempre uno di Elena Boiynarovskaya che come al solito si accompagna con la sua chitarra acustica. I sintetizzatori sullo sfondo creano atmosfere oniriche, tutto sembra soffuso e rallentato, come sospeso. ”My letali”, “Volavamo” come bambini aspettavamo col fiato sospeso che si aprisse la porta proibita, la porta dei ricordi perduti… e il mondo reale rimane sotto di noi, ce ne siamo dimenticati, Beh, dobbiamo!. Questo desiderio di evasione, questo cercare di volgere lo sguardo altrove, di rifugiarsi nei propri sentimenti e nei ricordi è un motivo dominante dell’album e lo si legge attraverso la musica anche se non siamo in grado di capire i testi. Decisamente inquietante appare invece il quadro apocalittico che emerge brutalmente dalla traccia successiva, “Kislorod” e cioè “Ossigeno”, un ossigeno che ci manca in una società che sprofonda nel caos e nei veleni e che ci costringerà a pagare se vorremmo continuare a respirare quel minimo d’aria che potrà lasciarci in vita. I suoni si elettrificano, i ritmi diventano più incalzanti guidati dal pianoforte e dagli archi e sembra quasi di ascoltare qualcosa dei White Willow, senza però le loro caratteristiche nuance folk. Ma per riuscire a sopravvivere “Dopo il naufragio” (“Posle korablekrysheniya”) bisogna continuare a nuotare, senza fermarsi mai, neanche quando tutte le forze sono esaurite, come ci spiega Elena in questa ballad dai toni tragici e dai contorni sonori vellutati. Questo, come avrete notato, è un album fatto di sentimenti forti e contrastanti che rilucono attraverso la musica seducente. Se conoscete i russi Iamthemorning direi che riuscirete a intuire cosa voglio dire. Musicalmente trovo fra questi gruppi delle affinità ben definite e non mi stupirebbe se l’ensemble di San Pietroburgo si fosse lasciato ispirare da questi colleghi ucraini. La già citata “Ramki” è incastonata alla perfezione al centro dell’opera, sia fisicamente che emotivamente. Con questa traccia il pathos sembra proprio giungere al culmine e di qui in poi si procede un po’ in discesa, come se ci venisse offerto un minimo di riposo dopo una partenza impegnativa. Abbiamo ancora note intense di poesia… voglio essere un granello di sabbia, una goccia d’acqua nel deserto, senza un nome e senza una veste, una parte del mondo immenso (“Magiya”) e infine, giunti alla traccia di chiusura, lasciata come di rito alla voce di Elena, troviamo messaggi di speranza e “cento strade si apriranno nuovamente dal nulla. La musica ci lascia con suggestioni delicate e classicheggianti che spero preluderanno, fra un paio d’anni, ad un nuovo bellissimo album, scritto questa volta in tempi di pace. Disco dell’anno.
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Jessica Attene
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