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CICCADA The finest of miracles Fading Records 2015 GRE

Capita che quando una cosa ci piace particolarmente non riusciamo a trovare neanche le parole più elementari per descriverla. Signori, questo è il caso. Buttare subito giù, nero su bianco, le sensazioni di ascolto per fissarle e non farle volatilizzare è per me quasi un istinto. Ma con questo secondo album dei Ciccada, giunto a distanza di cinque anni da un debutto, “A Child in the Mirror”, che avevo particolarmente amato, la musica scorreva più e più volte dalla prima all’ultima traccia ed il foglio continuava a rimanere inesorabilmente immacolato. Niente spartiti nuovi ed originali né suoni fantasmagorici a togliermi il respiro e rubarmi le parole, non fraintendetemi, ma una gentile combinazione di prog sinfonico, folk, musica da camera, una voce celestiale, quella di Evangelia Kozoni, e melodie dolci arrangiate in modo particolare, sono bastati a mandarmi in tilt. Purtroppo ho un debole per certe commistioni di folk e prog sinfonico, quindi per una volta non vi lamentate se ho preferito l’ascolto passivo al pensiero critico. Ma avete ragione, la recensione non può essere un referto clinico della mia crisi esistenziale, quindi cercherò di riassumere alcuni aspetti chiave che vi permettano di capire di cosa sto parlando, partendo dal presupposto che una conclusione in cui vi consiglio fortemente l’acquisto del CD è ormai scontata.
Rispetto all’esordio la formazione ha acquisito un batterista di ruolo, Yannis Iliakis, mentre il bassista, Omiros Komminos, compare ora nel lungo elenco degli ospiti e suona in tutte le tracce, tranne che nella prima e nella seconda, dove, in quest’ultima, lascia il suo ruolo a Johan Brand degli Änglagård. Detto questo, preciso che lo stile del gruppo svedese appena citato qui ci azzecca pochino, se non per qualche vaga comune somiglianza coi King Crimson. I compositori principali rimangono Nicolas Nikolopoulos (flauto, sax tenore, flauto dolce, organo Mellotron, Synth, piano, piano elettrico e glockenspiel) e Yorgos Mouhos (chitarra classica, elettrica e acustica, backing vocals). Il pool di ospiti è nutrito ma sensibilmente diverso da quello reclutato nel 2010 e comprende un intero brass quintet oltre che il violino, usato a profusione e suonato dalla bravissima Lydia Boudouni, il violoncello, il clarinetto ed il clarinetto basso.
I riferimenti ci sono e sono tantissimi, talvolta abbastanza puntuali. Più di una volta scorgerete un breve arpeggio di chitarra che vi riporterà all’istante a quell’arpeggio specifico dei Genesis o un attacco di Mellotron che invece vi farà pensare ai King Crimson o qualche nota Tulliana di flauto. Ma tutto passa così veloce, con grazia e leggerezza, che ve ne scorderete subito, distratti dalla suggestione successiva. Qui ci vedo i Flairck, là i Gentle Giant, laggiù i Trespass, di qua i Wobbler o i Cathedral, ecco qui per qualche istante addirittura i Comus o gli Yezda Urfa e potrei andare avanti ancora a lungo. La sintesi di ciò è un prog sinfonico molto arioso con elementi di musica da camera, folk e musica antica (come ho già detto e scusate la ripetizione), particolarmente denso di dettagli e che gioca sul rapido alternarsi di diversi strumenti, in un baluginio di colorazioni sonore tenui ma molto variegate.
“A Night Ride”, la traccia di apertura, riesce a riassumere perfettamente lo stile del gruppo con la sua crepuscolare bellezza che talvolta sfocia in suoni decisamente notturni e cupi e altre volte ti irretisce con melodie soavi. Le sonorità vintage delle tastiere, quelle del Mellotron su tutte, si mescolano a quelle eleganti degli strumenti acustici. Il flauto, il violino, la chitarra escono ed entrano continuamente di scena, si trovano e si lasciano su un morbido tappeto di suoni ornato da pregevoli intarsi. Ma fra le tracce che ho appezzato in modo particolare citerei la successiva “Eternal” dove Evangelia canta melodie dal sapore rinascimentale con l’estasi di chi narra leggende antiche ed immortali. Qualche svolazzo strumentale qua e là ha quasi il sapore d’Oriente e l’attenzione sui dettagli è tale che sembra quasi di percepire le dita o le labbra che sfiorano gli strumenti. Troviamo vividi innesti cameristici ma anche momenti in cui i suoni si elettrificano e rinvigoriscono accendendo i contrasti di una musica che in generale tende al sogno e alla poesia. In “At the Death of Winter” il cantato si fa misterioso ed è qui che, per il suo andamento buffo e le voci a cappella, mi sono venuti in mente sia gli Yezda Urfa che i Gentle Giant. Ma si tratta di attimi, ve lo ho detto. Anche in “Around the Fire” troviamo un delizioso mescolio di suoni elettrici ed acustici con qualche goccia di psichedelia, il tutto orchestrato in modo equilibrato, fluido, elegante. E poi, dopo una fugace (47 secondi in tutto) “Lemnos”, ecco una suite, quella che dà il titolo all’intero album, suddivisa in cinque tracce tra loro concatenate. I primi tre movimenti sono strumentali mentre le due tracce conclusive sono cantate, questa volta però in greco anziché in inglese e qui, sulla scia di una lingua non proprio usuale per il nostro genere, il fascino secondo me, se possibile, aumenta. La conclusione, “Song for an Island” si apre in modo improvviso, ed è teatrale, sostenuta ed irrequieta.
Sono passati 46 minuti e 50 e ormai non guardo gli appunti che non ho preso ma ciò che ho scritto, come avrete intuito, di getto e finalmente è giunto il momento di consigliarvi vivamente l’acquisto di questo disco, candidato ad entrare nella mia futura lista dei migliori del 2015. Fine.


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Jessica Attene

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