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WILLIAM D. DRAKE |
Revere reach |
Onomatopoeia Records |
2015 |
UK |
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Per molti il nome di Wiliam D. Drake rimane indissolubilmente legato a quello dei Cardiacs, con i quali ha suonato per nove anni, dal 1983 al 1992. Forse però a qualcuno sfugge che questo musicista (compositore, tastierista e cantante, per essere precisi circa il suo ruolo) già da qualche annetto, e cioè dal 2001, persegue una brillante carriera solistica, arrivata, con questa nuova uscita, escludendo dal conteggio singoli ed EP, al suo quinto capitolo in studio. L’esperienza coi Cardiacs deve aver forgiato in modo determinante il suo carattere acuto e un po’ svitato. Nel contesto di questo brillante nuovo album si percepiscono perfettamente numerosi elementi di quello stile particolarissimo, che credo tutti voi conosciate e da qualcuno definito, non a torto, col neologismo “Pronk”, volendo con questo termine indicare una commistione impossibile fra l’irriverente punk ed il sofisticato progressive rock. Per essere precisi questo “Revere Reach” sembra quasi la sublimazione sinfonica, decadente e romantica dell’anima del gruppo madre. La strada per arrivare a questo album parte dal precedente “The Rising of the Lights” (2011) che, guarda caso, conteneva due brani concepiti proprio nel periodo in cui Drake militava ancora nei Cardiacs. La line-up venne allora stravolta ed ampliata con l’inserimento di molti strumenti, fra i quali la ghironda. E adesso si va addirittura oltre e possiamo registrare, con grande piacere, l’intervento di una aggraziata voce femminile, quella di Andrea Parker, splendida nel ruolo di solista (ammiratela nella fragile ballad “Castaway”) e abile in coppia con Drake nell’addolcire i suoi modi a volte bruschi e ruvidi (come nella deliziosa “A Husk”, con le sue timide brezze orchestrali e i minuti intarsi medievaleggianti). Nel parco strumenti possiamo poi contare, a fianco ai classici sax, flauto, clarinetto, piano, basso e batteria, degli esemplari un po’ meno convenzionali come celeste, harmonium, optigon, shelton, dulcitone… oltre alla già citata ghironda, o hurdy gurdy, per dirla all’inglese, e al mitico television organ, creato dallo stesso Drake ai tempi dei Cardiacs. E adesso non ci resta che inserire il dischetto nel lettore ed è come entrare in una traballante dimora di epoca vittoriana con la sua carta da parati arzigogolata e un po’ ammuffita, gli ampi tendaggi dai velluti spenti, gli arredi ingombranti, le pareti ingombre di oggetti di mille fogge ed i pavimenti scricchiolanti. Ambientazione bizzarra, non c’è che dire, ma illuminata da squarci di pura poesia. Sembra quasi che tutto sia fuori posto e di brano in brano si subiscono sensibili variazioni stilistiche ma nel suo insieme il risultato è davvero unico. Si ammassano in questo album diverse fragranze con decisi sentori psichedelici, elementi acustici ed orchestrali, musica sacra e folk, nuance Canterburyane e melodie dai connotati sinfonici, il tutto condito da un inconfondibile retrogusto British. L’apertura, “Distant Buzzing”, è decisamente grottesca, col cantato di Drake volutamente sciatto e scanzonato a contrasto con gli arrangiamenti sinfonici che scorrono su un festoso ritmo di marcia. Non è difficile rimanerne un po’ spiazzati, anche se l’effetto Cardiacs è abbastanza evidente… ed ecco che parte “In Converse”, con testi del drammaturgo irlandese John Millington Synge. Apre il piano lieve e classicheggiante e la voce di Andrea vi si posa delicatamente. I suoni si intrecciano in punta di piedi in una timida danza ed un flebile clarinetto si allunga sulle note dominanti del pianoforte ed infine questo etereo quadretto sfuma via, inafferrabile. Si cambia ancora scena e “Lifeblood” è fiabesca, con le sue colorazioni folk fornite da ghironda e fisarmonica innestate in spartiti dal taglio cameristico mentre le parti corali sembrano quasi quelle dei Phideaux. Echi di musica sacra con voci solenni si affacciano nella successiva “Be Here Steryear” in un contesto quasi surreale. I tredici brani qui presenti sono davvero tutti brevi con il picco di soli 5 minuti e 50 della title track ma alcuni, come “Clack Dance”, volano addirittura via in un lampo. Si tratta in quest’ultimo caso di un semplice intermezzo strumentale di appena 43 secondi, fatto di melodie un po’ sconnesse e di suoni curiosi ed opachi, fra i quali spiccano quelli dello harmonium. Questa frammentazione accresce sicuramente l’effetto mosaico di un album che mi fa pensare ad uno scrigno pieno di vecchie chincaglierie colorate così inutili ma incredibilmente belle da passare in rassegna una ad una dopo averle rovesciate sul tappeto… Mi piace ancora citare, e sarebbe un peccato non farlo, “Heart of Hoak”, brano intriso di un buffo romanticismo, serioso e un po’ bislacco in un misto di fantasmi, polvere e profumi o anche la saltellante “The Catford Clown”, con la citazione della celeberrima nursery rhyme sul ponte di Londra che cade giù, e, per finire la melodrammatica e goffa “Orlando”, con quell’appeal esilarante da operetta tragicomica. Riponiamo il CD nella sottile custodia cartonata e diamo un ultimo sguardo alla variopinta copertina… davvero azzeccato questo graziosissimo dipinto di Orlanda Broom. Credo che ci rivedremo presto io e te, cuffie nelle orecchie e testa fra le nuvole per sognare ancora un po’… Se volete c’è posto anche per voi.
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Jessica Attene
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