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AMAROK (SPA) |
Hayat yolunda |
Azafràn Media |
2015 |
SPA |
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Questo ottavo album giunge dopo un periodo sofferto di silenzio, a distanza di ben nove anni dal precedente e molto ben accolto “Sol de medianoche”. In effetti il gruppo è stato riportato in vita dal veterano Robert Santamaria dopo che lo stesso ne aveva decretato lo scioglimento perché sentiva di essere giunto ad un bivio compositivo che non lo avrebbe condotto verso alcuna evoluzione artistica. Se avrete la fortuna di acquistare l'edizione limitata con CD bonus potrete ascoltarne con le vostre orecchie le prime sei tracce che rappresentano proprio una selezione dei pezzi ai quali il gruppo stava lavorando con l'intento di inserirli in un ipotetico seguito di “Sol de medianoche”. Quel grazioso mix di prog sinfonico dalle evidenti connotazioni folk, secondo Robert, era la dimostrazione tangibile che il gruppo era in piena crisi creativa e che faticava a rinnovarsi. Forse il giudizio del leader e polistrumentista (antropologo nella vita di tutti i giorni) è un po' troppo severo, dopo tutto soltanto lui può sapere quali fossero al momento le sue crisi esistenziali, sta di fatto che questo ritorno ci consegna forse l'album migliore della discografia degli Amarok: un distillato di prog sinfonico dalle fragranze mediterranee interpretato con grande sentimento, soprattutto dalla voce splendida di Marta Segura. Il nuovo album porta con sé anche qualche aggiustamento della line-up che vede l'arrivo di un nuovo batterista, Pau Zañartu, e di Xavi Saiz alla chitarra elettrica che prima era a carico degli ospiti del momento. A dire il vero questo strumento non si rende mai protagonista e raramente emerge dalle retrovie in un contesto ove prevalgono atmosfere morbide dominate dagli arpeggi acustici e dalle tastiere di Robert Santamaria e dal flauto di Manel Mayol. Le coloriture folk si sono in gran parte dissolte e non rimane che l'interpretazione molto caratteristica di Marta Segura, con le sue intonazioni flamenco e qualche vago accento mediorientale, specialmente quando entra in gioco il saz. L'approccio generale, devo dire, è molto canonico e profondamente segnato dalle influenze di Genesis, Yes e Oldfield con scarse variazioni sul tema. Cionondimeno il risultato finale è molto elegante e particolare, grazie anche al bellissimo concept che lega le dieci composizioni. “Hayat Yolunda” è un'espressione turca che può essere tradotta con “il cammino della vita” e parla del transito della vita umana in questo mondo. Come descritto nelle bellissime parole di presentazione del booklet, la vita umana fluisce come un fiume che si riversa nell'oceano, dove finalmente si fonde con tutte le altre per poi evaporare e ricominciare il suo ciclo ma ogni percorso è fortemente condizionato dal luogo e dalle condizioni di nascita: come sarebbe stata la nostra vita se fossimo nati in Etiopia o se fossimo dei rifugiati o dei soldati in Colombia o donne in Afghanistan? Nonostante questo l'infelicità è in grado di ghermirci anche nella profonda tranquillità della vita quotidiana ma in ogni caso l'amore, la bellezza e la luce che risiede in ogni persona umana è in grado di dissolvere le ombre lasciando spazio alla speranza. Grazie anche a questa preziosa cornice l'album ha una struttura corale e abbastanza uniforme e le stesse tracce scivolano l'una nell'altra e spesso sono mal divisibili fra loro. Già dall'incipit, “Universo”, possiamo quindi farci una buona idea globale dell'opera. Ecco quindi il flauto, la chitarra arpeggiata e fiumi sotterranei di Mellotron dai tratti inconfondibilmente Genesisiani. I Genesis in particolare sono riletti in mille variabili con digressioni lungo tutto il loro repertorio classico da “Trespass” a “The Lamb”: in questo caso specifico trovo riferimenti puntuali a “Supper's Ready” come ad esempio nell'oscura e delicata “Incertidumbre” ce ne sono di molto espliciti a “The Cinema Show”. E poi c'è la voce incantevole di Marta che lascia ampio spazio alle lunghe divagazioni strumentali utilizzando testi poetici che stimolano l'immaginazione non perdendosi in puntigliose descrizioni o narrazioni dettagliate. La stessa musica è ricca ma mai inutilmente sfarzosa e sempre squisitamente sinfonica, talvolta con esplosioni di Moog che ricordano gli Yes, talvolta, soprattutto per quel che riguarda gli intrecci chitarristici, Hackettiana fin nel midollo. Come vi accennavo, la successiva “Revelación” appare indissolubilmente legata alla traccia precedente con le sue trame sottili, imbevute di dolcezza, e disegnate dal piano, dalla voce e dal flauto. I toni sono lievemente drammatici ma il canto finisce col sovrastare tutto con i suoi slanci di immensa passione. Poi si innesta una sequenza strumentale florida con momenti più slanciati, innervati da un filo di chitarra elettrica. Vedete che i pezzi si sviluppano in modo asimmetrico e a volte non ben prevedibile, nonostante siano sempre pacati, melodici e scorrevoli e seguono un tragitto complessivo non lineare, come un viaggio che ha una partenza e una destinazione non chiara fin dall'inizio. Più oscura e regolare nelle cadenze, “Gestación” si distingue per il cantato flamenco caldo e vibrante, doppiato dal Moog che sullo sfondo ordisce molti ricami. Si stacca un po' dagli altri brani la centrale “Rubicón”, uno strumentale dominato da cascate vistose di tastiere che fa quasi da spartiacque fra le due ipotetiche metà del disco. I ritmi sono qui più sostenuti con una batteria che comunque, devo dirlo, a volte manca un po' di fantasia, sostenendo i momenti più vivaci e ritirandosi nell'oblio nelle parti più poetiche. Ci sono molti cambi di scena ma credo che i momenti più belli dell'opera rimangano quelli dominati dal cantato che rappresenta l'elemento più peculiare del gruppo. Le tracce conclusive in particolare, come “Camino De Vida” presentano sonorità più impastate e soffuse, con bei riferimenti a Mike Oldfield e qualche traccia impercettibile di psichedelia. Nonostante ciò, lo ribadisco, l'album appare coerente, unitario, di qualità abbastanza costante e ci possiamo immergere con piacevolezza nelle sue melodie interminabili. Fra le curiosità contenute nel bonus CD segnalo in particolare "La Edad Avanzada"che rappresenta il risultato di una collaborazione fra Robert Santamaria per il progetto non andato a buon fine chiamato “Seven” e che pretendeva di riunire sette tastieristi venezuelani in un album che doveva trattare delle età dell'uomo secondo il poeta Shakespeare e “La Vinyota's Jig” composto da un tema musicale che trovò spazio in un disco dei Dafnia, progetto parallelo di musica mediterranea intrapreso da Santamaria con Marta Segura dopo lo scioglimento del gruppo madre. Tutti questi brani hanno trovato arrangiamenti nuovi e costituiscono nel loro insieme un vero e proprio album aggiuntivo, motivo in più per procurarsi questo prodotto molto interessante per tutti gli estimatori di prog sinfonico e melodico nella versione doppia speciale.
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Jessica Attene
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