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BELEDO Dreamland mechanism Moonjune Records 2016 URU/USA

Artista uruguaiano nato a Montevideo e poi traferitosi a New York, Beledo presenta un curriculum davvero invidiabile, dal quale si evince una serie incredibile di collaborazioni sparse in tutto il mondo, emblema di un artista purtroppo poco conosciuto ma che ha fatto dello studio continuo e dell’approfondimento culturale una vera ragione di vita. Autore di numerosi lavori solisti, ha anche dato vita agli Avengers, ha suonato – tra gli altri – con la jazz band sudafricana Ojoyo, ed aperto concerti di nomi blasonati con il proprio Beledo Trio. Per uno che durante l’università ha fondato l’University Conservatory Jazz Quartet, sviscerare la vasta galassia jazz consisteva in un autentico obbligo. Dopo aver iniziato a suonare il pianoforte a sei anni, Beledo ha imparato a maneggiare con eccellenza anche altri strumenti, tra cui la chitarra. Su questo lavoro, oltre a piano, tastiere e proprio la chitarra – sia elettrica che acustica –, il musicista di Montevideo si destreggia anche al violino, alla fisarmonica e dà ottimi esempi di come ci si rapporta musicalmente ad uno strumento complicato come il basso fretless.
Un album suonato per buona parte col bassista Lincoln Goines ed il batterista Gary Husband, vero esperto delle collaborazioni con i chitarristi talentuosi. Le prime tre composizioni sono eseguite interamente con loro. L’iniziale “Mechanism” è forse il pezzo migliore in assoluto, molto vibrante e spensierato, che mischia un violino in stile Kansas assieme al jazz-rock dei Soft Machine epoca Holdsworth, con tanto di assolo magistrale sulle sei corde. Meno ad effetto la seguente “Bye Bye Blues”, anche se presenta un altro assolo jazz-rock dotato di grande brio, a cui ne fa seguito a sorpresa uno di mini moog che ricorda Jan Hammer. L’inizio di “Marilyn's Escapade”, poi, rammenta lo Steve Morse più “bucolico”, ma ben presto il brano si contraddistingue per gli assoli di pianoforte in stile T Lavitz (musicista peraltro collegato proprio a Morse e anche ai Dixie Dregs) e per quello di fisarmonica che ricorda i colori più malinconici dei quartieri latini, con la chitarra in bilico tra il solito Allan Holdsworth e Dewa Budjana.
Si cambia registro con “Lucila”, pezzo chiaramente fusion, accompagnato solo dai percussionisti Endang Ramdan e Cucu Kurnia, con il basso fretless in grande evidenza suonato dallo stesso Beledo; la chitarra viene “elettrificata” per un tempo molto ristretto, in quanto stavolta la fa da padrona quella classica che evoca sensazioni ispaniche (a tal proposito, da sentire dello stesso artista “Lejanas serranias” del 2003). Finita la pausa gratificante, con “Sudden Voyage” si torna al jazz-rock, assieme ai musicisti che compongono il Beledo Trio (Tony Steele al basso e Doron Lev alla batteria), cimentandosi come suggerisce il titolo in un viaggio veloce e leggero sulla chitarra archtop, in cui però le percussioni giocano un ruolo decisivo.
“Big Brother Calling” denota quasi dei suoni da traffico urbano, con un Beledo che sembra gettare lo sguardo al Vernon Reid meno metal e più sperimentatore. È una fase particolare dell’album, come dimostra “Mercury In Retrograde”, pezzo che mette in mostra uno degli assoli più intricati dell’intero lavoro, reso comunque con la solita fluidità.
“Silent Assessment” è forse la più rilassante del lotto, con il suo lungo fraseggio nuovamente sulla archtop, giusto preludio di “Budjanaji”, in cui compare come ospite proprio il compagno di etichetta Dewa Budjana. Chiari i riferimenti a Pat Metheny (come spesso accade nei lavori del chitarrista indonesiano), a partire dalle voci quasi onomatopeiche ad opera dello stesso Beledo. Due assoli, il secondo suonato da Budjana, forse più diretto del collega sudamericano, la cui ritmica è affidata al basso di Randy Zulkarnaen, assieme agli strumenti percussivi di Ramdan e Kurnia.
“Front Porch Pine” chiude con la formazione del Trio. In evidenza il basso di Steele, che permette alla chitarra di potersi muovere in maniera inusuale e con molta originalità, tra suoni distorti, manipolati, a volte quasi robotici. Conclusione di un album complesso ma capace di scorrere via abbastanza velocemente, che occorrerà riascoltare per cogliere gli elementi inevitabilmente sfuggiti. Traspare una bella carica positiva e le composizioni sono davvero di rilievo. Gran bel lavoro, caro Beledo.



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Michele Merenda

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