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BELEDO Flotando en el vacio MoonJune Records 2024 URU/USA

Rieccolo qua José Pedro Beledo, polistrumentista uruguaiano trasferitosi negli Stati Uniti, le cui numerose esperienze musicali nel corso degli anni sono state riassunte nelle passate recensioni. Fresco di un album pubblicato già nel mese di febbraio a nome Beledo & ArtoNumen, dal titolo “Realidad o supersticion”, il nostro torna nel mese di novembre dello stesso anno su MoonJune Records. Se il primo lavoro sopra citato lo vedeva impegnato anche alla voce, cantando testi in lingua madre su pezzi tradizionalmente rock/pop ed eseguiti in trio, su questa seconda uscita stagionale si torna al jazz-rock/fusion che lo ha visto distinguersi come chitarrista nello stile vicino a quello di Allan Holdswoth. Un approccio comunque latino, che smussa certe asperità del celeberrimo collega inglese e ne accentua l’aspetto melodico. Per questo lavoro, l’appassionato patron Leonardo Pavkovic propone al musicista uruguagio la collaborazione con il flautista/sassofonista Jorge Pardo ed il bassista Carles Benavent. Due musicisti spagnoli di grande spessore, che vantano collaborazioni con nomi che vanno da Paco De Lucia a Chick Corea. Capaci quindi di spaziare dal flamenco all’area jazz, i nuovi compagni di avventura hanno permesso a Beledo di impostare le composizioni seguendo nuovi parametri, mantenendo allo stesso tempo la propria identità artistica. Senza poi tralasciare la presenza dell’ormai immancabile batterista israeliano Asaf Sirkis, che non teme davvero alcuna sfida ritmica. Ripresosi dall’emozione dopo la notizia, Beledo compone “Candombesque” al piano e “From Within” alla chitarra. Il primo brano citato vede in effetti l’artista sudamericano impegnato in maniera molto briosa ai tasti d’avorio e soprattutto vorticare sulle sei corde, ondeggiando tra lo stile sudamericano e quello adottato da Holdsworth su “Bundles” dei Soft Machine; entusiasmante la sezione ritmica, anche quando segue l’assolo di Pardo al sax, mentre in sottofondo il pianoforte continua ad andare per la sua strada, lasciando spazio nel finale alle percussioni dell’ospite Ramón Echegaray. La seconda composizione, posta peraltro subito dopo, ne è la diretta prosecuzione, sviscerando le radici etniche del compositore grazie anche al flauto suggestivo di Pardo che richiama l’immagine di copertina. Gli assolo di quest’ultimo sono davvero da gustare, diventando sempre più intensi mentre la batteria fa di tutto, per non parlare delle linee soliste di basso. Il botta e risposta nel finale con la chitarra di Beledo è di altissimo livello, non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello squisitamente musicale, ricordando alla lontana un pezzo come “Club Kidd” del sassofonista Donny MacCaslin.
Visti i canoni del nuovo lavoro, il chitarrista integra anche “Rauleando”, sorta di fusione tra jazz-rock e tango contemporaneo, dedicato al suonatore di bandeón e maestro del tango uruguagio Raúl Jaurena, con cui Beledo aveva già suonato questo stesso pezzo. Composizione molto passionale, da segnalare per le evoluzioni di basso, i soliti botta e risposta solistici e per la parte finale affidata prima al pianoforte e poi al flauto. E visto che si parla di riproposizioni, ecco la title-track, estrapolata dal repertorio dei Siddharta, band in cui Beledo militava tra il 1977 ed il 1982; presentata ai tempi del Conservatorio universitario a Héctor Tosar, una delle più importanti icone della musica uruguaiana, venne suonata da questi per la prima volta come se l’avesse conosciuta da sempre, comunicando le proprie impressioni al giovane Beledo e facendo sì che aprisse i suoi occhi verso la vocazione jazz-rock. Una prima parte che vede protagonista il pianoforte, per poi lasciare il campo al flauto, alla chitarra e quindi al sassofono.
Dopo un ampio confronto con Pavkovic, quest’ultimo propone di inserire una versione di “Djelem Djelem”, composta da Žarko Jovanovič nel 1949 e affermatasi come inno del popolo Rom, poi adottato ufficialmente nel 1971 dai delegati del primo Congresso Mondiale Rom a Londra. L’autore compose un testo in lingua romani e lo adattò ad una musica tradizionale, base su cui si è lavorato al brano presente in questa sede, per l’occasione posto a inizio album quasi fosse un vero e proprio manifesto di intenti. Partendo con il flauto mistico e nostalgico che si rispecchia ancora una volta nella luna di copertina, i sapori gitani si mescolano con quelli iberici, dove Beledo si esprime prima alla chitarra flamenco e poi al violino.
Ma non finisce certo qua, perché rimangono “De tardecita”, “Es prohibeix blasfemar” e “Rodeados”, tre jam sessions con l’altro polistrumentista Gary Husband, impegnato in questi tre episodi al piano Fender Rhodes e al Minimoog. Molto bello il primo titolo citato, dove si crea un’interazione jazz-rock davvero eccellente lungo tutti i dieci minuti, con spunti solisti davvero di rilievo; il secondo si mostra come ciò che effettivamente è, vale a dire una di quelle improvvisazione all’interno della Casa Murada a cui ci ha abituato in questi anni l’etichetta, con sporadici spunti di interesse; i quasi diciassette minuti dell’ultimo, invece, posti in chiusura, si rivelano eccessivi (come già capitato in passato) e ne sarebbero bastati al massimo la metà, ponendo l’accento sull’intenso finale. Nonostante questo appunto, comunque, Beledo regala un altro ottimo album, eseguito come sempre con ottimi compagni di avventura e che si segnala nuovamente tra le migliori uscite dell’anno. Complimenti vivissimi, anche a chi ha avuto la lungimiranza di mettere assieme questi musicisti.

 

Michele Merenda

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