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I AM THE MANIC WHALE |
Everything beautiful in time |
autoprod. |
2015 |
UK |
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Se non possiamo parlare di un nuovo periodo aureo del new prog britannico, certamente negli ultimi anni abbiamo assistito a come-back piuttosto validi (i “nuovi” Abel Ganz, i Comedy Of Errors…) ed alla nascita di nuovi progetti (Grand Tour ad esempio) altrettanto interessanti. Tra le nuove band segnaliamo come degni di nota gli I Am The Manic Whale (!!), composti dal tastierista John Murphy, dal batterista Ben Hartley, dal chitarrista David Addis, dal bassista e cantante (oltre che tastierista) Michael Whiteman e da Ella Llloyd al flauto. “Everything beautiful in time” rappresenta il loro lavoro d’esordio e se qualche appunto lo possiamo fare per la lunghezza dell’album (oltre 70 minuti..), ben poche osservazioni negative andranno fatte sulla qualità e la resa sonora delle 7 composizioni. Un ottimo prog sinfonico con ficcanti incursioni della chitarra elettrica e delle tastiere (e qui nulla di nuovo), ma in cui non vengono affatto trascurate atmosfere più soffuse e rarefatte grazie agli interventi del flauto, della chitarra acustica e del pianoforte. “Open you eyes” è il primo brano che incontriamo: chitarra hackettiana, un bell’impianto strumentale, la voce gradevole di Whiteman, arrangiamenti brillanti che evidenziano le qualità ed il gusto del tastierista John Murphy. Se i denigratori del genere continueranno ad evidenziare la poca fantasia presente in questo modo di intendere il progressive, gli estimatori, invece, non potranno che riconoscersi in queste atmosfere briose ed (apparentemente) spensierate. “Pages”, il brano che segue, si pone sulla stessa lunghezza d’onda di “Open your eyes” con, in più, la chicca di un bel intervento della chitarra classica e del flauto, mentre il finale è ancora scoppiettante. “Circles (show love)“ è la prima suite che incontriamo ed offre molteplici motivi di interesse: una sezione acustica che “lancia” il pezzo, gli spunti più heavy della chitarra di Addis, una batteria possente, uno splendido assolo di synth ed un’ottima interpretazione vocale di Whiteman (che nel brano si cimenta anche alla batteria, al basso e alle tastiere addizionali) che preludono al sontuoso e vorticoso finale. 16 minuti che andranno a contendere all’altra suite, “Derelict”, la palma di brano migliore dell’intero album. Non male anche la traccia n. 5, “Clock of the long now”, che si discosta, seppur parzialmente, da quanto sinora ascoltato. Una introduzione “a cappella”, gli spunti fusion delle keyboards, ma anche i più confortevoli ricami strumentali e qualche richiamo più patinato all’easy listening, seppur di pregio. “The mess” è una ballad ben confezionata ed una sorta di “prender fiato” prima dei fuochi d’artificio della suite che chiude “Everything beautiful in time”. Introdotta da una lunga sezione di pianoforte, seguita da un lampo della sei corde e poi dall’inizio della parte cantata, “Derelict”, dapprima si muove come sospesa con le tastiere in sottofondo poi subisce la prima impennata strumentale con la crescita della sezione ritmica e assoli ben congegnati. Il brano sboccia poi definitivamente con un cantato più grintoso, numerosi controcanti e costruzioni più aggressive. Ma dopo la tempesta è tempo di quiete: atmosfere pastorali (flauto e tastiere di sottofondo) e la voce di Whiteman che torna delicata ed avvolgente. Il motore torna poi a pieni giri per il crescendo finale che suggella degnamente i 21 minuti della composizione. Un bel lavoro quello della band di Reading, con i due punti esclamativi rappresentati dalle splendide suite, ma anche con un “contorno” degno di nota. Niente di nuovo sotto il sole, ma è un “niente di nuovo” che apprezziamo e consigliamo.
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Valentino Butti
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