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BURNT BELIEF |
Emergent |
Alchemy Records |
2016 |
AUS/USA |
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Dopo che nel 2010 i Porcupine Tree vennero messi in “congelatore”, il bassista australiano Colin Edwin è risultato essere il componente più attivo ed intraprendente (mastermind Steven Wilson a parte, ovviamente). Tra i vari progetti portati avanti, due album con i Metallic Taste of Blood , la collaborazione col duo ucraino di voci femminili Astarta per espandere la propria cultura nell’ambito delle radici folk est-europee, e la presenza su “Dance of the shadow planet” (2011) del chitarrista statunitense fusion/avanguardista John Durant. Proprio con quest’ultimo è nato il desiderio di esplorare le potenzialità di certe sonorità ipnotiche, tra l’ambient e la world music, sfruttando il magnetismo di ritmiche elettroniche e sintetizzatori, dando vita ai Burnt Belief (nome estrapolato dal romanzo “When prophecy fails” di Leon Festinger). L’uso di strumentazioni particolari come la cloud guitar, che possono essere apprezzate soprattutto da un pubblico di addetti ai lavoratori, ha portato ad elaborare tutta una serie di proposte in cui l’intento è quello di “narrare storie” per mezzo del proprio approccio strumentale. Così, questo terzo “Emergent” risulta ispirato dalle verità nascoste e mai dette del vissuto quotidiano, in cui la realtà appare addirittura letta sotto dei colori che solo l’insetto posto in copertina sembra essere in grado di vedere. Sarà anche vero che la tecnica vuole essere messa in secondo piano per far luce sull’aspetto compositivo, ma il fretless bass non è certo uno strumento semplice da usare, ponendo in evidenza un Edwin sempre in buona forma. Certe fasi chitarristiche, inoltre, presentano un tasso di difficoltà esecutiva decisamente sopra la media: pezzi come “The Confidence of Ignorance”, i nove minuti della title-track e gli assoli sciorinati intorno al settimo minuto nella lunga “Turning Torso”, mostrano un Durant assolutamente pregevole. Le atmosfere, nonostante molti parlino di colonne sonore fantasy o addirittura fantascientifiche, sembrano guardare a quella fase dell’anno in cui sta terminando l’autunno per far posto all’inverno. Si aprono le porte al buio, quindi, ma con ancora alcuni colori che lasciano la propria traccia morente nell’aria e negli occhi. Peraltro, lo stesso Durant si occupa delle fasi di pianoforte, come quelle limpide ed intense che scandiscono i momenti chiave dell’iniziale “The Bubble Burst”. Sembra di svegliarsi e vagare in un mattino nebbioso che va pian piano disegnando i suoi contorni, prendendo così vita e quindi lasciandosi andare sotto forma di assoli. In buona parte dei brani c’è una specie di “respiro” che fa sentire la propria presenza, simile a quanto avvertito su “Imperfetta solitudine” (2013) dei nostrani Pensiero Nomade. Una sensazione decisamente presente su “More Snow”, con la chitarra-sintetizzatore che ricrea un flauto, grazie al quale si apre la strada a delle note tanto acute quanto esotiche. Ed in effetti, la propensione a ricercare le evocazioni sonore dell’Est sembra un tratto comune a molti brani. Il terzo lavoro dei Burnt Belief è basato molto sulle sensazioni, quindi è sicuramente riduttivo ed anche fuorviante prolungarsi in descrizioni. Non sarà certo un super album, ma vale la pena darci qualche ascolto e magari ritrovarsi in una felice meditazione, nonostante le atmosfere non siano sempre molto allegre ma anzi mirino a ricreare un costante stato di tensione. Fa eccezione “Language of Movement”, più allegra e movimentata, con un andamento che a tratti risulta leggermente debitore della ritmica funky.
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Michele Merenda
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